Resistenza e affetto
In "La resistenza estetica in musica. Esempi e riflessioni"
A cura di Giovanni Guanti
Università degli Studi Roma3 – Pisa University Press, 2018
Introduzione
La resistenza è una questione eminentemente affettiva. Implica anche sforzo intellettuale o fisico, a seconda delle situazioni, ma ciò che la sostiene è un'esigenza affettiva, il desiderare profondamente che le cose vadano in una certa maniera, nonostante le correnti degli accadimenti intorno a noi le spingano in direzione diversa, quando non opposta. Se non si trattasse di un desiderio che investe in maniera totalizzante il nostro essere, non ci sarebbe necessità di mobilitare una vera e propria resistenza. Anche la fatica e la sofferenza comportate dall'opporre resistenza sono di natura affettiva; il fatto che le cose non vadano come noi abbiamo bisogno che vadano, o spesso come riteniamo sacro e santo che debbano andare, non si limita, infatti, a indispettirci ma ci strazia il cuore, la dignità, l'orgoglio, la serenità.
Comprendere come la resistenza sia un processo affettivo è prezioso, poiché ci aiuta ad aver cura della componente spirituale dei nostri sforzi, in maniera da rigenerarne la gioia anche nel fallimento temporaneo. La resistenza è per definizione frustrante, perché si oppone a forze molto grandi (se non fossero grandi non parleremmo di resistenza ma di semplici ed efficaci contromisure), e la frustrazione va ascoltata affinché non si trasformi in scoraggiamento o, al contrario, in accanimento. Derive anti-affettive, queste, che alimenterebbero quell'esasperazione dei sentimenti che è proprio ciò che vorremmo lenire intervenendo sul corso dei fatti, interni o esterni a noi che siano. La resistenza deve quindi essere vivibile, sia perché conservi il suo senso, sia perché possa permettersi la lunga durata, altra caratteristica strutturale della resistenza propriamente detta.
Per concludere questa introduzione affermerei che la resistenza, in quanto affettività attiva, sia un processo squisitamente creativo. L'arte di resistere. Non solo con efficacia, ma con bellezza vitale. La resistenza è parte integrante di ogni progetto di felicità, tra cui è certamente da annoverare l'arte. Come resistere dunque in musica? La risposta è per forza di cose soggettiva, trattandosi di una questione d'affetto, per quanto carica di implicazioni di portata sociale. Allora, pur con un certo pudore, parlerò della mia posizione.
Resistenza e resistenze
Il pudore lo sento anche verso me stesso, non solo verso gli altri. Esito a raccontare fino in fondo a me stesso la mia lotta per resistere, forse perché ho paura di dovermene poi assumere tutta la responsabilità, quando invece una parte di me, affaticata fino al logoramento, racconta a se stessa che può sempre mollare, racconta che “smetto quando voglio”; o forse temo che a focalizzare troppo la mia lotta io senta fino in fondo il dolore da cui nasce, la sofferenza che l'ha resa necessaria, e che il mio cuore si accartocci nell'amarezza; oppure ho paura di scoprire che la mia lotta non sia sufficientemente dura o, ancora, che possa dissolversi come un sogno se la guardo troppo da vicino. In una sola parola sento in me quella che in psicanalisi si chiama una resistenza. Ho una resistenza (passiva) a parlare della mia resistenza (attiva). Entrambe le forme di resistenza nascono da moti travolgenti dell'inconscio. Io in realtà, infatti, non so perché senta di dovere scrivere musica e farlo in un certo modo, così come non so perché io tema così tanto il fatto di parlarne pubblicamente. Ho spiegato i motivi che percepisco emotivamente, ma ignoro il motivo per cui questi motivi hanno una tale presa su di me.
Insomma, la resistenza è una lotta su fronte doppio: quello esterno, contro la resistenza (passiva ma talvolta perfino attiva) opposta dal mondo alla nostra evoluzione, e quello interno, contro la resistenza operata dalla nostra stessa anima. Sorge un dilemma di natura ancora una volta affettiva: come opporre resistenza alla nostra resistenza senza snaturarci? E da questo dilemma nasce anche un dubbio: siamo sicuri che dobbiamo davvero opporci alle resistenze interiori e mundane? Forse tanto la nostra anima quanto il mondo stanno cercando di dirci qualcosa, e dovremmo ascoltarlo. Dovremmo quindi accogliere l'inerzia? Ma sì, dobbiamo accogliere ogni forma di resistenza! Non alla lettera, però. È tutta qui la differenza tra regressione ed evoluzione. L'evoluzione deve comprendere la regressione («il mio ideale è “maturare” verso l'infanzia»(1) scrive Bruno Schulz, così come, ancora più radicalmente, Witold Gombrowicz in Ferdydurke e in pressoché tutta la sua opera, denuncia l'inautenticità di ogni falsa, posticcia maturità esistenziale, culturale o letteraria) altrimenti è sterile, così come è ovvio che la regressione è feconda solo se vibra come risorsa evolutiva, come rincorsa per spiccare con pienezza balzi in avanti. Quindi la nostra forza artistica deve saper fare tesoro della puerilità del mondo, accogliendola per capirla e, solo così, superarla, senza pretendere di ignorarla. Forse in parte è questo che Elias Canetti intende quando, nel suo discorso per il cinquantesimo compleanno di Hermann Broch a Vienna nel 1936, afferma che l'artista deve essere schiavo fedele e vizioso del proprio tempo, con la missione, incatenato all'interno della propria epoca, di esserne radicale e disperato oppositore. Concetto potentemente racchiuso anche nel famoso passo di Friedrich Schiller nelle Lettere sull'educazione estetica dell'uomo del 1785, in cui l'autore raccomanda all'artista di essere, sì, figlio del suo tempo, ma di non esserne mai discepolo e men che mai figlio prediletto. Vale anche per il nostro mondo interiore: dobbiamo essere figli e schiavi della nostra anima ma non pigri, informi, appagati, autoreferenziali.
C'è un lato luminoso nell'inerzia: inerzia non è solo solo immobilità, è anche il moto ormai avviato e difficile da arrestare. Allearsi con le forme dell'inerzia, mobili e immobili, significa includere le forze profonde della nostra vitalità, non solo quelle evolute, sagge e corticali, legate alle scelte della volontà cosciente. E di nuovo questa è una questione squisitamente affettiva e altrettanto squisitamente artistica. L'arte fatta di sole prese di posizione coscienti è poca cosa, è ideologia – di qualunque natura, estetica, etica o politica. D'altronde l'immane forza idealistica di Luigi Nono sta proprio nel fatto che le sue posizioni ideologiche sono veicolate da progetti artistici intrisi di forze psichiche profonde e intensissime. Altrimenti la sua opera sarebbe rimasta mera, pur se sacrosanta, bandiera civile. Giacinto Scelsi ha riassunto in maniera molto efficace la necessità di trovare un equilibrio tra forme opposte di resistenza:
«Non condivido affatto la posizione di Richard Strauss – che pure non è l'ultimo tra i musicisti –, il quale disse che gli altri e il popolo in generale lo interessavano soltanto quando diventavano pubblico, cioè quando ascoltavano le sue opere e assistevano ai suoi concerti... cioè quando pagavano i biglietti, perciò solo quando erano in sala!
Però non condivido neanche quella di Luigi Nono – che pure stimo molto come compositore e come persona –, il quale considera la musica e l'arte in genere solo in funzione sociale e partecipe della lotta di classe. Sarebbe come pretendere che il genio di Archimede avesse dovuto applicarsi solo a costruire fortificazioni contro il nemico.»(2)
Faccio notare notare per inciso come le altrettanto intense e profonde forze dispiegate nell'opera di Scelsi vengano sempre più riconosciute dal mondo, con sempre minori resistenze ideologiche, d'altra parte anche quest'ultime comprensibili, dato il modo ambiguo con cui il compositore si era sempre presentato al mondo. Solo recentemente accurati studi musicologici hanno contribuito a dissipare parte delle nebbie in merito alle sue particolari modalità di creazione.(3)
Procedere con inerzia (anche con inerzia, non con la sola inerzia, s'intende) significa conoscere se stessi, e farlo dall'interno di quel superamento della dicotomia tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto che ci viene raccomandato da ogni tradizione sapienziale, dal buddhismo al Nietzschiano diventare ciò che si è. Le pratiche per individuarsi senza scindersi sono tante: azione, meditazione, psicanalisi, amore (ecco ancora l'Affetto, in senso stretto), dedizione agli altri, dedizione a se stessi, arte. Tutte queste vie implicano l'integrazione tra resistenze attive e passive, sia interne, sia esterne a noi cioè interne agli altri. In un quadro così complesso diventa difficile se non impossibile dire quale posizione artistica, spirituale e morale sia “giusta” e quale sia “sbagliata”. Quale sia davvero regressiva e quale davvero evolutiva. E sia benedetta questa indecidibilità. La vita è questo e ci mancherebbe solo che ce ne dimenticassimo. Di fatto ce ne dimentichiamo un po' ogni giorno, e dobbiamo ogni giorno ricordarcelo. Ecco un'altra forma di Resistenza.
La mia Resistenza
Qual è la musica che voglio e devo scrivere? Darò dapprima una risposta semplice, poiché non sono sicuro che mi faccia bene verbalizzare tutto in una volta sola (almeno per ora assecondo la resistenza a parlare). Io voglio e devo scrivere una musica in cui risuoni il puro gusto di esistere, il commuoversi di essere e di esserci. Descrizione fumosa, lo ammetto. Concedetemi anche di non fare riferimenti dotti a Heidegger per approfondire i concetti di essere ed esserci; sono sicuro che potete farli da soli ben meglio di me, lo dico senza ironia. Mi permetto solo di affermare che questa, secondo me, è da sempre l'essenza della musica. Posizione ambiziosa la mia, eppure giuro che non sento nessuna arroganza nel dirlo. Una triade maggiore non somiglia a un sorriso – non più di quanto un sasso somigli alla solitudine – ma può accenderlo. Il suono ha la forza di un risuonatore ontologico. Che gioia struggente, esisto!, esclamiamo nel cuore, magari senza neanche accorgercene, rapiti come siamo, quando una musica risveglia in noi una profonda risonanza affettiva. Con quale arroganza noi musicisti potremmo sentirci in diritto di ritrarci da questa missione? Meglio fallire piuttosto, ma avendoci provato. D'altronde una versione corrotta di quest'effetto la ottengono anche le musiche brutte o noiose, facendoci accorgere di esistere ma senza nessuna commozione, spingendo il nostro corpo alla rivolta e rendendogli penoso restare seduto sulla stessa sedia che fino a poco prima sembrava tanto comoda da farsi dimenticare.
Questa mia posizione artistica non è una scelta. Semplicemente non possiamo essere altro che noi stessi quando creiamo, e io non riesco a pormi nessun obiettivo che non sia assecondare i miei appetiti emotivi. Cerco la gratificazione in ogni cosa, e non posso farne a meno, come una droga. Eppure so differire – pur se con duro sforzo – la gratificazione e costruire doni musicali da libare nel tempo. Ma anche il differire è un'esigenza emotiva: differisco la gratificazione quando sento la spinta irresistibile a farlo. Quindi, in buona sostanza, mi autogratifico sempre quando compongo. È la vittoria del godermi. E questo è l'alveo in cui possono scorrere il gusto, l'accorgersi e il commuoversi di esistere. Di nuovo è importante ascoltare il proprio capriccio, ma non alla lettera, altrimenti si avvizzirebbero tanto il gusto quanto l'accorgersi e il commuoversi; diventeremmo bestioline irriflesse, manine intente a insaziabili masturbazioni destinate a diventare velocemente prive di sapore, come un chewing gum scadente dopo poche masticate. D'altronde, senza capriccio, il chewing gum sarebbe duro, secco e insapore ancor prima di essere messo in bocca.
Ma sono l'unico a fare così? A gratificarsi? No. Facciamo tutti così. Solo che alcuni artisti sono animati da una tale vocazione normativa che sono convinti che i loro impulsi siano quelli che dovrebbero guidare anche tutti gli altri artisti; per loro la vera musica è quella che nasce da certe spinte e non altre, e guarda caso queste spinte sono le loro, a cui credono di essere giunti per autodisciplina e non per ineludibile destino psichico, oppure sono convinti che la forza destinale che li ha baciati in fronte sia superiore a quella altrui. Sono tantissimi gli artisti che agiscono e pensano così; li si stana facilmente, basta vedere come commentano, per esempio, le partiture altrui: «ma perché qui non hai fatto come avrei fatto io se lo avessi fatto io?». (Tragico diventa quando insegnano – e spesso lo fanno, solitamente con grande seguito di accoliti adoranti, sempre numerosi poiché tutti cerchiamo norme e alibi che lubrifichino dall'esterno, legittimandola, la nostra resistenza a essere.) Questa è la loro gratificazione, e il loro normarla la rinforza; spesso però a furia di normarla, quindi di codificare una tale spinta inconscia in direzione precettistica-repressiva, rischiano di ucciderla o comunque di irrigidirla, attutirla, di ridurne la profondità spirituale. Eppure anche loro fanno bene a fare così, pur non rendendo un buon servizio agli altri: il cattivo servizio da loro reso andrà ad aumentare la resistenza che il mondo opporrà a ogni individualità che, diversa dalla loro, cercherà di fiorire. È un male per gli altri ma, in virtù di tutte le considerazioni fin qui accumulate, anche un bene, perché aumenterà il tono della lotta.
La sapienza del corpo
Per quale via perseguo questa musica che aspira alla massima intensità di commozione? La perseguo affidando una parte importante della sua articolazione alla sapienza conscia e inconscia del corpo dell'interprete. Il corpo sa quale suono lo commuove. Anche la mente lo sa, ma talvolta non sa dirlo; spesso però, tramite l'iniziativa fisica impulsiva, sa metterlo in atto. Grazie alla mediazione della dimensione corporale attiva, percettiva e propriocettiva – performativa, si dice oggi, con esasperante facilità – le zone subcorticali del cervello riescono a balzare in primo piano, trapassando il controllo corticale senza vanificarlo e soffiando vita ineffabile ma ben avvertibile nelle strutture musicali imposte dalla partitura. Quindi, per entrare nel concreto, le mie partiture, tramite un sistema di notazione specifico, presentano un insieme di istruzioni sonore, motorie ed esperienziali (altra parola che non si sopporta più ma che, giuro, utilizzo da venticinque anni, da quando era decisamente impopolare, quando non ignorata) che conducono l'interprete a dare vita agli eventi sonori desiderati. Il dato sonoro finale non è interamente fissato sulla pagina, perché la partitura funziona come una specie di intavolatura performativa, cioè fissa le condizioni oggettuali, muscolari e mentali entro cui l'interprete deve attivare un flusso di forze psicofisiche da incarnare in forma di fatti sonori, seguendo gli impulsi che qui e ora la partitura stessa innesca ma non prescrive. Ho chiamato tale meccanismo operativo Sistema HN®, dove HN sta per hic et nunc.
«Il corpo dell’interprete è attraversato da una rete capillare di vincoli fisici, indicati nella partitura della composizione, che ne condizionano a livelli diversi le possibilità di comportamento.
Tali indicazioni – che vanno dalle più macroscopiche alle più sottili, come la contrazione e il rilassamento di precise parti del corpo, talvolta apparentemente non coinvolte nell’azione sonora – non costituiscono semplicemente una partitura di “cose da fare”, quanto limiti entro i quali scaricare la propria energia, concentrare la propria delicatezza, vivendo la propria corporeità, prima ancora che articolandola secondo un'intenzionalità musicale puntuale e integralmente deliberata.
All’interprete viene chiesto che il proprio comportamento si nutra degli impulsi provenienti dalla percezione del suo corpo, assecondando la loro spinta a manifestarsi espressivamente.
Alimentando la memoria corporea – risvegliata dal proprio stesso agire – di esperienze emozionali realmente vissute, l’interprete ricorda e attua spontaneamente i comportamenti a esse legati.
L’inter-azione tra i due esecutori non si basa sull’imitazione reciproca o sulla ricerca “positiva” di relazioni, ma scaturisce dal loro essere, in ogni istante, intensamente presenti l’uno all’altro.
Quando, infatti, pur nell’autonomia del proprio agire, gli interpreti cercano di non soffocare la propria percezione – sinesteticamente uditiva, visiva, tattile, intuitiva – delle azioni e della stessa presenza dell’altro, giungono a uno spontaneo reciproco lasciarsi spazio, necessario per continuare, ciascuno dei due, a “sentire” – in tutti i “sensi” – l’insieme.
Tale processo di sensibilizzazione a ciò che è e che accade qui e ora, intende coinvolgere lo stesso ascoltatore. A questo scopo i musicisti non agiscono su un palco ma si trovano accanto, intorno e in mezzo agli spettatori. L’ascoltatore si trova così nel medesimo spazio in cui sono e agiscono gli interpreti: ciò rende più facile abbandonare l’approccio oggettivo e clinico dell’“osservatore” di fronte a una “rappresentazione”, ovvero la tendenza a ricondurre a un lì e allora, ciò che sta avvenendo qui e ora.»(4)
Con sereno orgoglio posso dire che la mia musica è molto amata. E con sofferto realismo posso dire che incontra molte resistenze. Per esempio Iannis Xenakis – che pure ho sempre stimato molto – nel 1995 mi chiese «ma perché ti occupi dei muscoli dell'esecutore? Sei un compositore, devi occuparti del suono»(5). Strana osservazione, pensai, per un compositore la cui ricerca è stata occupata in maniera così fondante dallo studio di fenomeni non deterministici come il comportamento delle molecole dei gas o quello della folla in preda al panico. Evidentemente il tipo di indeterminazione che caratterizza i fenomeni fisici gli appariva controllabile e connesso al mistero della forza del suono, più dell'indeterminazione racchiusa nei fenomeni psicofisici, specificamente quelli legati all'iniziativa performativa dell'interprete. È vero che nel suo caso le partiture sono determinate e fissate nell'esito sonoro finale ma è anche vero che il dinamismo dei suoni di quell'esito finale è stato determinato da modelli stocastici; c'è quindi una quota di intenzionale non controllo, anzi, diciamo che c'è un controllo specifico della specifica mancanza di controllo sull'esito finale che è poi uno dei segreti della forza della sua musica. I dinamismi interni del suono, che nel suo caso vengono determinati da complessi calcoli matematici e probabilistici, nel mio caso vengono determinati dai complessi impulsi muscolari e cerebrali dell'interprete, ovviamente non abbandonati a loro stessi ma pianificati dalle mie parametrizzazioni.
Cos'è quindi che rende così difficile riconoscere l'importanza del ruolo del corpo nella formazione del pensiero artistico? Sappiamo tutti che il nostro modo di pensare, artistico o meno, sarebbe diverso se il nostro corpo fosse un'entità del tutto diversa da come la conosciamo; eppure non riteniamo il corpo degno di scrivere l'ultima parola nel dettare la struttura di un'opera, se non nell'ambito dell'improvvisazione (la cui dignità è infatti sovente messa in discussione in ambito accademico, pur se fortunatamente sempre meno). Probabilmente il problema, se di problema si tratta, è che nel corpo il ruolo dell'inconscio è sempre tra i piedi. Il corpo lo possiamo controllare volontariamente ma fa un sacco di cose a nostra insaputa: dal battito del cuore, alle secrezioni insuliniche, alla postura che assumiamo senza accorgercene a seconda del nostro stato d'animo. Ma anche il pensiero è così! Non siamo del tutto “noi” che scegliamo cosa pensare. Quando siamo in ansia pensiamo cose diverse da quelle che pensiamo quando siamo felici e appagati. Cambia proprio la nostra visione del mondo, cambiano le idee, i significati, le decisioni. Ma il pensiero ci dà sempre l'illusione di essere integralmente controllabile coscientemente. Il pensiero stesso consiste nel cercare di pensare che le cose stiano così. Quando il velo di questa illusione si solleva ci sentiamo subito minacciati dalla follia, a meno che ciò non avvenga nel sogno, innocua ma spudorata dimostrazione quotidiana della natura autarchica – ma non per questo insensata – del Sig. Cervello. Siamo insomma sottilmente convinti, anche se da intellettuali evoluti ci costa molto ammetterlo, che il pensiero sia più sapiente dell'atto. Quando ci affidiamo al corpo, ci sembra di essere in balia dell'inconsapevolezza.
Ecco, questa credo che sia la risposta più terra terra alla domanda sul perché la mia musica susciti forme di resistenza in chi, non sentendola risuonare dentro di sé, potrebbe limitarsi all'indifferenza. Una risposta che non ha nemmeno bisogno di scomodare riflessioni – peraltro fuori dalla portata della mia godereccia ma abborracciata competenza filosofica – che puntino il dito sulla corrente dualistica che attraversa dai suoi albori il pensiero occidentale e lo porta a diffidare delle unioni sfacciate – magari perfino elevate a sistema – di psichico e somatico. (Non sono sicuro che il pensiero orientale sia messo tanto meglio, perché coi suoi sottili aghi piantati nel corpo per curare, che so, la depressione mi sembra anticipare lo stesso dualismo causalistico, pur rovesciandolo alternativamente da una prospettiva psicosomatica a una somatopsichica. L'Oriente non è la cura della malattia dell'Occidente, ne è l'incubazione, insinuo citando a memoria Emanuele Severino.)
C'è un modo per verificare indirettamente il mio assunto – cioè che riconoscere l'importanza del corpo smuova segrete o manifeste resistenze – ed è verificarlo in coloro che affermano di avere incluso eccome il corpo nel proprio pensiero artistico: prendiamo a esempio la già citata gaia passione dei nostri giorni per la performatività, che viene messa in campo ma in realtà come osservata dall'esterno, trasformata in qualcosa che non è più la sorgente interna del fatto musicale e dell'atto di mettere in atto. Come afferma il musicologo Stefano Lombardi Vallauri, la componente performativa – corporale o meno che sia – viene messa a disposizione della costruzione compositiva in maniera del tutto superficiale, all'esterno del processo generativo dell'opera; diventa un materiale tra i tanti come può esserlo l'immagine del corpo ripresa da un'action camera piazzata sul polso del violoncellista, o il gesto di un vigile urbano che dialoga con quello del direttore d'orchestra, o un movimento di luci che completa o addirittura innesca quello sonoro. Innescare non basta, occorre che corporalità e sonorialità siano autenticamente indistinguibili e, come unità, costituiscano il fondamento strutturale generatore del fatto artistico.
La vitalità dell'effimero
Forse, però, non è l'estrema interferenza coi processi corporali ma la parziale indeterminazione dei risultati sonori delle mie partiture a motivare alcuni casi di resistenza nei confronti della mia ricerca. Le pagine scritte secondo il Sistema HN sono espressamente vincolanti al livello delle cause del suono più che a quello dei suoi esiti, pure rigorosamente vincolati ma per via in parte indiretta. Impugnare saldamente una causa significa controllarne e al tempo stesso liberarne le conseguenze, la cui forza può assumere forme diverse a ogni esecuzione, diverse e quindi sempre prossime alla loro natura sorgiva. Per esempio la tecnica vocale detta delle Vibrazioni Nascenti, che ho messo a punto insieme al vocalista dell'Ensemble HN, Renato Gatto, permette di udire in ogni istante «l'apparire della nascita del suono», come la descrisse con efficace sintesi il compositore Pierluigi Billone(6) nel 2003, dopo l'ascolto di Ma vero, la mia composizione per lamiere HN, voci e clarinetto.
Assumo il mio bisogno spirituale oltre che artistico di strutturare l'effimero, come trampolino poietico per cogliere ciò che, fin dall'infanzia, più mi avvince e al tempo stesso spaventa: il passare del tempo – o meglio il trascorrere nostro e di ogni cosa nel tempo. Ricordo quanto mi folgorò alle scuole elementari un motto di sette parole, accompagnato nel mio libro di testo dal disegno di un orologio a pendolo: «il tempo passa e non torna più». Leggendolo mi sembrò che si spalancasse intorno e dentro di me un abisso filosofico, una verità vertiginosa. Per anni poi mi sono sentito cretino per aver tremato di fronte a questa spicciola rivelazione, e anche ora sorrido di quell'illuminazione ma soprattutto della successiva immotivata ma volenterosa vergogna. Il tempo, mobile o immobile che sia, fissa nel passato gli eventi. La passione per l'effimero mantiene il tempo aperto, lo rigenera, allontana la morte della vitalità (ecco una forma squisita di resistenza), cavalca il passare del tempo – o, come già detto, il nostro trascorrere nel tempo – non domandolo ma, al contrario, impiegandone l'indomabilità come leva per aprirci alla continua rinascita: nelle mie composizioni organizzo il suono tendendolo di volta in volta verso la pressione o la de-pressione temporale, ma sempre verso la rigenerazione perpetua dell'energia dell'istante.
Comprendo come per alcune persone questo approccio costituisca un permanente smottamento del terreno sotto i piedi dell'idea dell'opera d'arte compiuta. Io stesso provo una certa paura a ogni esecuzione dei miei lavori, perché l'equilibrio che porta all'apparizione uditiva dei campi di forze accuratamente calibrati in sede compositiva potrebbe svanire da un istante all'altro per le cause più imponderabili. Ma cosa posso farci? Mi tocca resistere e proseguire per la mia strada.
Il mio rapporto col vivere e il creare ha molti altri volti che non sto ora a esaminare. Una costante però riesco a tracciarla: l'esigenza di vivere con la massima intensità quasi ogni istante dell'esistenza, come un contrappeso al mio sguardo fisso alla morte. Il senso di morte imminente – o perfino già avvenuta, con conseguente e opprimente urgenza quotidiana di risorgere – che mi accompagna da un bel tratto di vita, è stato di certo alimentato nel 1986, quando avevo diciassette anni, dall'essermi sentito dire dal Dott. P.M.T., benemerito ma forse psicologicamente poco avveduto chirurgo dell'ospedale di Orbassano, che quasi certamente avevo un cancro alla tiroide. Aspettativa di vita: due anni, forse uno.
«Imparai a vivere nel puro presente. Nessun futuro, nessun passato, nessuna aspettativa, nessun rimpianto, solo l'accensione dell'istante, una scintilla scoccata dentro un vuoto che riconobbi come fondamento dell'esistenza, un fondamento più autentico e nutriente – così mi sembrava – del pieno di memoria e progettualità che aveva strutturato fino a quel momento la mia vita. [...]
Diverse lunghe settimane dopo, sospese in una fragranza di eternità, i medici mi dissero che si erano sbagliati. Non avevo il cancro. La nuova rivelazione fu perfino più sconvolgente della precedente. Ero condannato a vivere nuovamente nel tempo che scorre, che si consuma anno dopo anno, un tempo dentro il quale si deve costruire e non solo far vibrare l'esistenza.»(7)
Verosimilmente però questa consapevolezza ossessiva della mortalità umana era già presente ed è il prezzo che pago per l'iniziativa folle dei miei genitori di impormi la propria scriteriata vitalità sessuale – tralascio i dettagli – impedendomi per sempre di vivere serenamente le mie risorse erotiche come ponte per condurmi oltre l'intensità del presente, tipicamente incarnata nel momento apicale dell'orgasmo. Non parlo tanto dell'aspirazione di vivere oltre la mia vita tramite la procreazione genitoriale – tra i frutti dell'amplesso l'unico di cui, guarda caso, non mi è mai importato nulla – ma di trovare un'unione più o meno armoniosa tra energia sessuale ed energia affettiva, entrambe, in me, così vive, profonde, articolate, tanto luminose quanto oscure pur se mai torbide, eppure così drammaticamente in attrito scintillante tra loro. Solo quell'unione mi donerebbe la vittoria sull'usura emotiva causata dal trascorrere del e nel tempo, e mi permetterebbe di realizzare la forma suprema di Resistenza. Ma forse è proprio perché non riesco a ottenere questa vittoria tramite quella via, che la perseguo tramite la creazione artistica: lottare contro la perpetua minaccia di consunzione della forza della vita, del corpo e del suono. Permettere alla vita, al corpo e al suono di calarsi – grazie all'eterno rinnovamento, operato dal loro caparbiamente coltivato carattere effimero – nella commozione dell'adesso abissale, del momento presente incendiato.
Finalmente il tempo è intero.
Le linee ritornano al palmo,
l'ordito si stende
paziente e strappato,
e forse comincio a capire le leggi
di questi sordi sputi.
© 2017 Dario Buccino
In "La resistenza estetica in musica. Esempi e riflessioni", a cura di Giovanni Guanti, Università degli Studi Roma3, Pisa University Press, 2018, pp. 161–172, ISBN 978-88-3339-044-4
(1) B. Schulz, Lettere perdute e frammenti, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 103.
(2) G. Scelsi, Il sogno 101, Macerata, Quodlibet, 2010, pp. 233-234.
(3) Cfr. per es. S. Marrocu, Il regista e il demiurgo. Giacinto Scelsi e Vieri Tosatti: una singolare sinergia creativa, Dottorato di ricerca in Storia Scienze e Tecniche della Musica, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, a.a. 2013/2014; F. Jaecker, Explodierende Asteroiden. Giacinto Scelsi: “Aitsi” und “Quartetto n.5”, in «MusikTexte», 100/2004.
(4) D. Buccino, E allora oggi la mano la scorgo spiegare le linee, ordire pazienza, programma di sala, rassegna concertistica Happy New Ears, Ivrea, 1994.
(5) Iannis Xenakis, comunicazione personale avvenuta presso l'abitazione del compositore, 1995.
(6) Pierluigi Billone, comunicazione personale avvenuta presso il Laboratorio Aperto Fatti Sonori, 2003.
(7) D. Buccino, La costrizione della nudità, CD, libretto interno, Edizioni Zùmpapa s.r.l., 2014.