Esibizionismo e impulso artistico
Mi sono impigliato nella musica senza intenzione. Da bambino cercavo un mezzo d’espressione artistica. Recitazione e scrittura mi risucchiavano come crateri. Sentivo anche, come tutti i bambini, il piacere e il bisogno di disegnare. Non credo di essere mai stato spinto da un talento specifico (anche se i talenti, pur indefiniti, non mi mancavano). Quella che scoprivo essere la mia aspirazione ineliminabile era la ricerca dell’artisticità. Me ne accorgevo, però, poco alla volta: tendevo ad appassionarmi ad alcune cose invece che ad altre e me ne sfuggiva il motivo – tuttora in parte mi sfugge.
Allora credevo e temevo si trattasse di semplice e puro esibizionismo. Con gli anni ho cominciato a capire che di esibizionismo si trattava, ma che la faccenda era tutt’altro che semplice e pura. L’impulso a esibirci (oggi direi a esporci) corrisponde a una specie di esigenza igienica: evitare di sprofondare all’indentro. Evitare che l’introspezione – altro impulso che dominava la mia infanzia e adolescenza in misura soffocante – diventi una rinuncia al mondo, alla vita agìta, in ultima analisi una rinuncia a noi stessi. Metterci in mostra è sicuramente un cibo prelibato per il nostro narcisismo, ma il narcisismo del contemplarci dentro non è meno vischioso e potenzialmente regressivo. Non è l’impulso esibizionistico in sé a costituire narcisismo. Certo, nell’esporci e nel rispecchiarci nella percezione altrui ci troviamo faccia a faccia con lo specchio d’acqua in cui si perse Narciso, ma occorre accettare il rischio o perfino il fatto di perdercisi, perché proprio perdendoci nello specchio possiamo individuarlo, reagire e differenziarci da esso più articolatamente. Intuire la nostra interiorità, definirla, ascoltarla e a volte – a colpo cieco – catturarla, per poi elaborarla e trasformarla in oggetti simbolici che ne siano imbevuti fino alla piega più nascosta e offrirli agli altri: ecco l'occasione che ci viene offerta dal lavoro artistico.
L'esteriorizzazione dell'interiorità non deve necessariamente avvenire sotto forma di creazione artistica, ma deve necessariamente, comunque, avvenire. Irradiare la risonanza della nostra interiorità ci permette di amalgamarla con la risonanza degli altrui mondi dentro. In poche parole ci permette di vivere da esseri umani. Introversione ed estroversione abbisognano l’una dell’altra per diventare ciclo vitalizzante e non mortifero. Come ben sappiamo, la ninfa Eco – a cui per punizione divina era negata l’estroversione di sé, potendo parlare solo facendo risuonare l’ultima sillaba pronunciata del suo interlocutore, duplicando quindi passivamente la risonanza di qualcun altro – si consumò perduta nell’amore non corrisposto per Narciso – che a sua volta si consumò perduto nell’amore per sé stesso, impigliato in un’interiorità aperta solo verso la passiva duplicazione di sé.
Musica e scorie non musicali
Come dicevo, non so ancora bene perché alla fine fu la musica. Di certo mi appare sovrana tra le forme di messa risonanza della sensibilità individuale e collettiva, come suggerisce l'evidente gioco di parole. Per me, però, non è mai stato "la musica e nient’altro". Ciò non tanto per amore d’eclettismo (che in sé temo, poiché spesso diluisce la forza dell’espressione estetica) quanto perché, fin dai suoi inizi, è così che il mio modo di definirmi dentro e di irradiarmi fuori ha imparato a operare.
Come compositore, per arrivare al nucleo del nodo esistenziale che in ogni specifico progetto artistico cerco di portare alla luce, ho bisogno di elaborare il suono, ovviamente, ma anche il processo performativo (sia fisico, sia mentale) che l’interprete attua per possederlo profondamente, la semiosi grafica che mi sostiene nel razionalizzarne gli aspetti essenziali e, non ultime, le parole (sia in prosa, sia in versi) che mi aiutano a non far evaporare, durante il lungo processo di definizione del manufatto musicale vero e proprio, l'intuizione espressiva che mi muove. Processo performativo, semiosi grafica e parole, però, non sono solo mezzi per arrivare all’architettura sonora. Certo, trattandosi di lavoro musicale trovo importante sforzarmi costantemente di piegarli a ciò: è l'opera, non le tracce del mio metodo, che dovrà risuonare di me e – se ci riesco – dell'ascoltatore. Solo così sarò uscito fuori da me stesso e avrò compiuto una ribellione contro quella dittatura narcisistica che conduce molti artisti a produrre splendidi e inerti fatti loro. Ordine grafico, corporale e verbale, però, esplicata la propria funzione di binario poietico, tornano poi come scorie preziose e diventano ulteriore veicolo di arricchimento e approfondimento spirituale, reclamando una propria vita autonoma più o meno artistica, una propria esposizione e condivisione.
Non basta loro la propria fecondità metodologica e, se c'è, conoscitiva. È come se volessero attraversare nuovamente il ciclo dall'introversione all'estroversione e viceversa, per farmi cogliere aspetti del mio essere non ancora sufficientemente sviscerati oppure per connettermi con altri aspetti dell'universo misterioso degli altri che magari, per paura o inettitudine, tendo a trascurare, e proiettarli in nuove opere. In una parola, vogliono cantare anche loro – non solo tra le pareti della mia scatola cranica o per i miei interpreti durante le prove. Per esempio, la vocazione all'ordine visivo mi spinge a concepire io stesso l'allestimento scenico dei miei concerti, plasmando così le modalità di ricezione dell'opera e creando una sorta di sovra-opera (l'ormai inflazionata installazione/performance art) formata dall'unione di fatti udibili e fatti visibili – o non visibili, data la mia preferenza per il buio utilizzato come risorsa per compensare la tendenza letteralizzante dello sguardo che vorrebbe sempre vedere "cosa sta facendo" l'interprete. L'inclinazione verso il linguaggio verbale mi spinge a scrivere testi teorici sulla mia ricerca musicale – in cui, oltre a spiegare, tento di moltiplicare i piani di senso del mio lavoro – o a comporre canzoni – mettendomi nelle condizioni di confrontarmi con un'altra moneta inflazionata della sensibilità collettiva contemporanea, aspirando a incidervi un segno non scontato.
Musica e testo letterario
Le mie poesie, quando supportano la messa a fuoco di un’idea compositiva non in forma di canzone, non vengono mai (o almeno così è stato finora) messe in musica. Ciò che cerco di mettere a fuoco in quei casi è qualcosa che scorre talmente al di sotto del dicibile da aver bisogno, sì, di un testo poetico che mi aiuti a incarnarlo e cristallizzarlo, ma anche da farmi sentire l'esigenza, poi, di lasciarlo da parte affinché non imponga alla costruzione sonora connotazioni di significato didascaliche, che limiterebbero l'ampiezza e la profondità della risonanza psichica dei fatti sonori. Non credo sia un caso che solitamente mi sento spinto lontano dalla melodia vocale (non necessariamente da quella strumentale, pur nel senso molto specifico di emozionata effusione fisica), espressione dell'affettività individuale radicata nell'inconscio oscuro ma ben ramificata nella coscienza lucida – infatti cantabile con sillabe e parole. Il testo sopravvive nel pezzo di musica sotto forma di titolo, estratto da uno dei versi. Dalla frizione tra l’aura di significati evocata dal titolo e quella evocata dall’accadere acustico, nasce un’ulteriore spessore di valenze, percorribile liberamente dalla mente del fruitore e dalla mia.
Quando, invece, assecondo l’impulso di comporre una canzone, normalmente sorge in me un’idea che è già un agglomerato di forme verbali e forme sonore. A volte uno dei due fronti avanza per primo nella mia immaginazione, ma si porta sempre dietro almeno l’odore e il sapore delle forme corrispondenti dal fronte opposto. Perché separo così nettamente la forma canzone dalle mie composizioni principali? E cosa intendo per canzone? Posso dire che provo interesse sia per la canzone contemporanea d'autore, sia per quella più esplicitamente rock e pop. Si tratta di una certa fisionomia sensuale. Non necessariamente strofa e ritornello, ma comunque qualcosa di analogo: formule poetiche concluse nel giro di pochi versi e strutture musicali nette e, almeno in parte, ripetute. Cerco di trasformare questi modelli in qualcosa di personale, ma senza perderne i punti di forza: immediatezza (non necessariamente semplicità), condivisibilità culturale (necessariamente non banalità), relativa concisione, emotività. Cerco insomma di individuare più che modelli tipici, modelli archetipici: accompagnamento (magari caratterizzato da armonie meta-tonali e ritmi non razionalizzabili ma, comunque, accompagnamento), arrangiamento (spesso per sola chitarra, perché non ho voglia di tenere in piedi una band e perché mi esalta troppo diventare basso e batteria vivente) o intreccio di solisti (ciascuno massimamente creativo, costruendo la tessitura collettiva tramite improvvisazioni radicalmente diverse di esecuzione in esecuzione, come in certo jazz, evitando gli incastri a orologeria tipici dell'arrangiamento pop-rock) e canto (o, quando l’impulso ritmico e recitativo prevale su quello melodico, rap). Insomma, se vuole essere canzone, sia davvero canzone!
Nelle prossime pagine si possono leggere le poesie che hanno contribuito a strutturare l'identità di alcune mie composizioni, senza diventare testo pronunciato o cantato, e altri testi che hanno preso forma come canzoni. Le poesie sono numericamente inferiori alle canzoni, perché la loro vita poietica è più lunga: ciascuna di esse costituisce l’asse poetico e il serbatoio di titoli di un intero ciclo di composizioni, la creazione delle quali può occuparmi per diversi anni.
© 2004 Dario Buccino (rev. 2021)
POESIE
Sempre più ampio il mio sguardo fisso alla morte,
si nutre del tempo sotteso,
non punta più le pupille su questa mano
oggi
io.
E allora, oggi, la mano la scorgo
spiegare le linee,
ordire pazienza.
(1991)
Esserci – nel tempo reale,
bastandosi la nuca
a scorrere dietro la fronte,
scavalcando senza passi
la fuga dell’unità in catenelle di sottointenzioni pseudopreservative.
(1993)
Ma perché non proprio il proprio
nodo di senso
come spazio primo da crescere…
Che poi lo stesso slittare centrifugo
fa ristagliare per fresco contrasto
il fondo
a cui richiamare il moto del pettine
(1993)
Da qui – non sale parola.
Adesso abissale.
Zittito, a dirsi reale.
Ma vero, anche se sfugge all’occhio dei giorni
(mi dico, col cranio tra i pugni del corpo).
Ma vero – mi dico
e piango con me.
(1997)
Ero già a me.
Anche se a lungo
in odore di squallido corso.
Io non avrei mai sperato.
Non sono tenuto a morire.
(2003)
CANZONI
A COLPO CIECO (2004)
Intuire netto
a colpo cieco
Vedermi…
Morbidissimo tenermi
lieve
fresco
forte
necessario
Sei preziosa
mia coppa di sole
Mi trovi…
Mi incroci nei canali
dei concetti
puri
sporchi
senza peso
E scavi massa chiara
E di me cavi il succo
a colpo vero
Mi vedi…
Poggio le ossa cave
sul tuo soffio
traccio il volo
forte
di te
TORTI E PIAGATI (2001)
E quando è il tempo di mietere il grano
di fronte al biondo campo guardi lontano
e mentre solenne abbassi le ciglia
tagli le gengive alla tua giovane figlia
E quando il sole dipinge il tramonto
e senti la grandezza di essere al mondo
e mentre ti imbevi di sacra luce in festa
spezzi mani e reni a chi abbassa la testa
E no, non lasciare che sporchino casa quelle mani
non lasciare quegli sguardi accarezzarti
trascinarti dentro il buio del cuore…
Tu non hai l’arroganza di capire il mondo
la pretesa culturale di guardarti nel profondo
ma poi li vedi giovani già torti e piagati
di disamore ottuso e duro male nutriti
Semplice, realista, credi nella gente
hai tutte le doti per fare il presidente
ma cedi il posto a un’altro con adulta sobrietà
perché nell’occhio suo splende italica lealtà
Si sta, dai raggi del tuo sguardo assente
dal muro del tuo abbraccio inesistente traditi
rannicchiati dentro il buio del cuore…
Nessuno merita il proprio dolore
Si sta, con le mani disperate in aria
a ripararci dal cadere di morti
quelli di mente, di stato, di pazzi
oltre il rancore...
Nessuno merita
I MIEI TAGLI NEL CORPO (2001)
Accoratamente ti parlo, amore mio
Lo strazio che vedi, ora, è nelle tue mani
Io te lo verso come vino dell’unione
Se senti le dita bagnate, lì sono io
E io non sono tra le tue colpe – guardami…
Vibro di un colpo più antico
Giuro la tua innocenza
Ma l’onda tremante senza pace si posa
Se senti le dita bagnate, quello sono io
Enorme il tuo palmo, a coprire i miei tagli nel corpo
A dirmi "sei mio
e quindi del mondo"
Amore, banchetto di forze di cui non son degno
Ma dì una parola, una parola soltanto
CHE TUTTO CONSERVA INTATTO (2001)
Questo è il concetto più importante
che in ogni canzone tento di fissare
C’ho messo degli anni per metterlo a fuoco
Ne ho sputato di sangue, ne ho fatto sputare
Ma adesso il concetto è pronto a farsi donare
C’è un punto inesteso nel corpo che tutto conserva intatto
Ti ho avuta – mia tigre – potente, sporca
Ed io sono entrato – coltello – sottile, violento
Ma in questo silenzio, a morsi ottenuto,
Amore, d’amore il mio amore è comunque nutrito
Nulla si disfa perduto, nulla è corrotto
C’è un punto inesteso nel corpo che tutto conserva intatto
L’essenziale, in quanto tale, va detto una volta e poi lo si deve tacere
L’essenziale, in quanto tale, va detto una volta e poi lo si deve tacere
L’essenziale, in quanto tale, va detto una volta e poi lo si deve tacere
L’essenziale, in quanto tale, va detto una volta
FATICA (2001)
Fatica – fatica:
in ogni dettaglio,
in ogni momento della vita.
Paura – paura – paura:
ad ogni movimento.
“Sto fermo!” – sto peggio.
“Mi muovo, mi muovo!” – sto peggio.
Ho chiuso coi fatti strani,
mi dico, indossando occhiali puliti.
D’ora in avanti mi proteggo:
soltanto situazioni funzionanti.
Ho troppi sacchetti da portare:
“cambio braccio, oppure cambio strada”, non serve.
Ho troppi scatoloni da controllare,
non mi bastano gli anni, non mi bastano le settimane.
Fatica – fatica:
in ogni dettaglio,
in ogni momento della vita.
Paura – paura – paura:
ad ogni movimento.
“Sto fermo!” – sto peggio.
“Mi muovo, mi muovo!” – sto peggio.
Me lo ricordo l’acido acuto,
le frasi tese, le risatelle forzate.
Me lo ricordo il fastidio represso,
i non-litigi da filmetto.
Me lo ricordo – c’ero, c’ero…
ho visto tutto, non allestite balle.
Te lo ricordi il nodo in gola? Si era incastrato.
Me l’ha dovuto togliere il chirurgo.
Fatica – fatica:
in ogni momento,
in ogni dettaglio della vita.
Paura – paura – paura – paura – paura – paura – paura…
Lo so, lo so…
Il mio amore mi è vicino
nell’affetto e nel rancore.
Il mio amore mi è vicino
nel profumo e nell’afrore e lo squallore…
Fatica – fatica:
in ogni momento,
in ogni dettaglio della vita.
Paura – paura – paura – paura – paura – paura – paura…
TU LO FESTEGGI (2004)
Tu – come ti permetti…
Sfasci…
Sfondi…
Come se neanche tu esistessi.
Ma per qualcuno
mai più
mai più
ci sarà il vento tiepido
che sveglia al mattino
e consegna alla nuova giornata…
Perché tu gli hai rotto gli occhi
Perché gli hai sfondato il pensiero
C’è un solo peccato.
Un solo peccato mortale.
Tu lo festeggi.
Tu crei disperazione.
IL SORRISO DALLA FACCIA (2004)
Te lo togli ‘sto cazzo di sorriso dalla faccia...
Te la levi ‘sta cazzo di bandana dalla testa…
Ma la smetti di fare le corna con le dita…
Ma la smetti di giocare con la vita?
SAPORE DI MAMMA (2004)
E questa canzone è dedicata a Oriana
Che pensa che i diversi siano figli di puttana,
Che teorizza che l’odio col DNA si passi,
Che il nemico tuo sparisce se di spada lo trapassi.
Venghino signori! Venghino signore!
Scusate se il linguaggio sarà duro da digerire
Vi vado a raccontare, senza fare alcuna accusa,
di torture e di sevizie che, si sa, da noi si usa.
Prima di creare la sua amata terra
Dio godeva leccandosi la merda
Ma poi certi preti gliel’hanno proibito
E adesso lui sconvolge Eva col suo grande dito
Che profumo di smegma! Che sapore di mamma!
Mi sento a casa mia quando mi annoio nella panna…
Che bello, giocare a casa col pisello…
Piglia ‘sto formaggio in mano!
Dimmi se era il caso di sputarmi sulla mano
Puoi essermi amico se ti abbassi piano piano
Non ti faccio promesse, non lo so se oggi sbavo…
Brambilla – coglione – comportati da bravo!
La paura la paura la paura è una puttana
Se la paghi ti sorride e tu ti illudi che ti ama
Rinchiusi nell’Olimpo – Garage di corpi umani –
aspettiamo quattro stronzi che ci taglino le mani
Fa male – fa male – impossibile spiegare
Fa male – fa male – puoi solo ricordare
Brambilla! Coglione! Con te non ho finito…
Da qui non te ne vai finché non è tutto pulito!
Guarda, guarda che cosa so fare!
So stare quattro battute senza respirare!
…Hai visto!?
Di chi sono queste unghiette, queste belle manine?
Di chi è questo pancino, questa bella passerina?
“Le ho trovate in un sacchetto, sul bordo della via…
Ma la mano è tutta gonfia, non so dirti se è la mia…”
Di chi sono questi occhietti? Di chi sono questi denti?
Ma perché fai quella faccia – non mi dire, ti spaventi!?
Eppure lo sapevi, quando hai alzato la voce…
Non dovevi ribellarti se hai paura della croce!
Che puzza… Cos’è… Sarà la tua saliva…
L’hai fatto un’altra volta… Che persona cattiva…
E allora senti il bastone – è solo un poco di corrente…
Ma cosa piangi – di te non troveranno niente.
Ti sanguina il culo, vecchio prete!?
Non mi dirai che hai ancora sete!!
Scaldati il pene…
Taglialo a fette…
Vomita i succhi del potere…
Schiaccia il cervello contro le tette…
Trapassale gli occhi col piacere!!!
LA MERDA NEL FRULLATO (2004)
Questa mattina mi son svegliato
ed ho trovato la merda nel frullato…
Questa mattina mi son svegliato
ed ho trovato la merda nel frullato…
Sono i giustini, i noncuranti
e il loro lercio lusso d’essere violenti,
le sciurette, i nonpensanti,
imbarazzante massa di cervelli spenti.
Ti costa tanto orgoglio, tanta fatica,
coinvolgere la mente quando pensi con le dita…
Ti costa tanto orgoglio, tanta fatica,
coinvolgere la mente quando pensi con le dita…
Digitando questioni a distanza confortante,
mimando, mascherandoti da icona pensante.
Ma questo è il modo di tendere la lama,
la minaccia di uccidere la forza che ti chiama.
Ti piacerebbe sentirti dire
che per essere violento devi fare del male…
Ti piacerebbe sentirti dire
che per essere violento devi fare del male…
E invece no! E invece no!
Perché rinunci… Perché ti spacca…
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
Che in fondo sai di non amare!
IL SIG. SQUALLIDO PERSONA (2004)
Delle vite che ti freghi
sui coglioni.
Della verità te ne freghi.
Schifosetto inferiore.
Per la gioia che minacci.
Signor Squallido Persona.
FEEDING WHISHES OF FEAR (2001)
I’ve got walking stills
The barks and howls of will
I hold…
But in the silent being
The whishes of fear
Will divorce will detach
Will cut into parts my brain
And still be there
Live by sucking milk
Milder thoughts will play the role of trash
Feeding… Feeding…
Feeding cancerous giving up dreams
But in the hollow hanging low side
Light will spring out over…
Giving up whishes of fear
Giving up whishes of fear
You’ve got stills that walk
The barks and howls of empty will
I hope…
Please be so sticky
Don’t ever let the core of your needs
Be blown away
At least not too much
Don’t even say “from now on…”
But in the silent being
The whishes of fear
Will divorce will detach
Will cut into parts my brain
And still be there
Live by sucking milk
Milder thoughts will play the role of trash
Feeding… Feeding…
Feeding cancerous giving up dreams
But in the hollow hanging low side
Light will spring out over…