Da alcuni anni tendo a parlare, descrivendo il Sistema HN, di parametrizzazione dell'atto corporeo, privilegiando quest'ultimo termine rispetto allo stanislavskijano-grotowskiano azione fisica.
Il termine "atto corporeo" sottolinea meglio, a mio avviso, l'intenzionalità che innerva e anima ogni azione compiuta dall'esecutore: l'attenzione si sposta sottilmente sulla prima (responsabile della forza radiosa del suono) a scapito della seconda (responsabile della forma del fatto sonoro).
Ogni azione, anche la più piccola, è sempre costituita, come è ovvio, da un pulviscolo di infiniti fatti motori. Nell'eseguire, o nel far eseguire, le mie composizioni non cerco di ripetere, di esecuzione in esecuzione, l'accadere sequenziale di quel pulviscolo, cerco piuttosto di soffiargli addosso e di scompigliarlo - pur senza disperderlo - per ricomporlo di volta in volta in forme irripetibili e irripetibilmente vergini. L'atto vitale di compiere l'azione, ovverosia l'atto di liberare creativamente, impulsivamente e consapevolmente quel pulviscolo, è ciò che cerco di catturare e di organizzare nelle mia partiture: l'atto corporeo che reinventa e realizza ogni volta l'interezza psicomotoria dell'azione fisica.
Ammetto che si tratta di una distinzione un po' cavillosa. Il termine "azione fisica", nel suo utilizzo stanislavskijano-grotowskiano (che qui per brevità considero come una cosa sola), non indica banalmente cosa si fa, né tantomeno indica la mera forma esteriore dell'azione, il suo "gesto", ma abbraccia l'intero complesso psicologico e corporale di cui è fatta ogni azione; si tratterebbe quindi di una definizione adatta anche ai miei scopi. Nondimeno nella scelta di un termine diverso intendo far risuonare una differenza che è soprattutto metodologica: nelle mie partiture le azioni sono già, almeno in parte, prestabilite e non, come nella prassi grotowskiana, create dall'interprete attraverso un lavoro di improvvisazione e fissate solo successivamente. È su questa base che Thomas Richards ha – così mi è sembrato – contestato alla mia musica di non essere grotowskiana; gli sono grato di aver notato questa distinzione, peraltro clamorosa e, tra l'altro, sottolineata – ma senza implicazioni negative – anche da Rena Mirecka già negli anni Novanta. L'interprete incarna le azioni e le ricrea, le manipola più che eseguirle. Le diventa, potrei dire, e quanto più fedelmente le diventa tanto più arbitrariamente le può reinventare. Per quanto siano pre-scritte e compositivamente organizzate, infatti, le azioni fisiche nelle mie partiture non sono indicate in maniera microtemporalmente vincolante; l'interprete si cala invece in una sequenza di gabbie temporali (che nel Sistema HN chiamo semplicemente battute) attraversate da un reticolo di prescrizioni corporali ed esperienziali, un campo di forze che genera in lui, nel momento dell'esecuzione, l'impulso verso questa o quell'azione fisica. I parametri funzionano quindi da argini e al tempo stesso da detonatori del comportamento motorio-psichico. Quel comportamento è fatto, sì, di azioni fisiche ma ciò che tento di catturare e ingabbiare a forza – dolce o costrittiva – nel reticolo parametrico è soprattutto l'impulso che, a propria volta, genera ciascuna azione. Quell'impulso è, nell'istante del suo sorgere e farsi suono, l'atto corporeo.
Un esempio banale per snebbiare questa brumosa distinzione: se un regista chiede a un attore di tremare (o se l'attore ha scelto di farlo, in uno specifico momento della propria partitura fisica), gli sta chiedendo, terra terra, di fare qualcosa. Se poi l'attore, guidato o non guidato dal regista, va alla ricerca delle sorgenti profonde da cui poter far scaturire il proprio tremore e, individuatele, le traduce in un flusso psicomotorio definito, ripetibile, vitale e intimamente personale, ecco che cominciamo a parlare di "azione fisica" nel senso più completo e proprio del termine (quantomeno nell'accezione teatrale a cui mi riferisco in questo scritto). La partitura HN, invece, oltre a pre-scrivere di tremare, specifica anche ciò che deve accadere a valle dell'azione fisica, cioè definisce il determinato fatto sonoro che il tremore deve generare, fissandone i cardini come in un'intavolatura. La partitura, inoltre, interferisce direttamente con il processo fisico-esperienziale a monte del tremore, cioè traccia graficamente e, in parte, verbalmente – le condizioni corporali e mentali dalle quali quali il tremore deve attingere per farsi vitale e, al tempo stesso, gli ostacoli attraverso le quali deve farsi largo per emergere, attraverso una lotta che ancor più lo individualizza.
Nonostante il procedimento sia così vincolante, la forma finale che verrà assunta dall'azione – non solo quindi la sua vitalità sottile – è affidata alla cruciale responsabilità dell'interprete che la determinerà reagendo alle costrizioni e, al tempo stesso, sfruttando al massimo grado i margini di libertà inventiva offerta dagli argini dati. Ciò che risulta ripetibile o, meglio, ripercorribile in una mia partitura non è, quindi, l'evento motorio-sonoro causato – più che prescritto – dalla pagina HN, ma lo spazio parametrico da solcare per dare vita al suono, spazio che, in quanto meticolosamente circoscritto, conferisce al suono la sua riconoscibile fisionomia acustica. Il modo in cui questo spazio viene vissuto, esplorato e permutato cambia a ogni esecuzione, garantendo vitalità al suono, facendololo sgorgare aderente a un qui e ora di impulsi interiori possibilmente incandescenti e obbligatoriamente non calcolati dall'esecutore. Durante le prove richiedo e aizzo nell'interprete uno spirito avventuroso spinto, in ogni istante performativo, fino al limite della perdita del controllo; l'intenzionalità con cui l'interprete – in maniera sobriamente o selvaggiamente istintiva – satura ogni minima particella dello spazio parametrico costituisce, nell'esatto istante in cui è messa in atto, l'irripetibile Atto Corporeo. Un Atto HN – forgiato dalla comunione e collisione della composizione con l'incontrollabile totalità psicofisica del performer.
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