Ciao Pietro,
accolgo con entusiasmo la tua richiesta di raccontarti in forma scritta le ultime acquisizioni tecniche e concettuali del Sistema HN e – siccome, come sai, manco del dono della sintesi ma abbondo in quello della prolissità – per chiarire le novità ti racconto tutto fin dalla nascita del sistema, pur ripetendoti così molte cose che già ben sai.
Buon divertimento!
Dario
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Fase HN 1 (dal 1991)
La prima fase del Sistema HN® (non lo chiamavo ancora così, ma aveva già assunto la sua forma fondamentale) è quella che va dal Ciclo HN (1991-1994), che ha dato origine al sistema, al Ciclo Siici! (1995-1997) compreso. Il sistema rispondeva alla necessità di creare una sintassi di notazione e una prassi di lavoro che mi permettessero di organizzare compositivamente, oltre al suono, i processi performativi. Fin da questa prima fase, la mia attenzione si focalizzava su azioni fisiche dell'interprete che fossero veicolo di grande forza espressiva e che conducessero l'ascoltatore a una percezione intensa di esserci, di esistere in comunione con il performer hic et nunc (da cui l'acronimo HN). Il carattere corporale e materico dei fatti sonori mi era prezioso per ottenere questo risultato anche se, fin da allora, la fisicità – del corpo e del suono – non era l'obiettivo centrale del Sistema HN: con il termine processo performativo, infatti, intendo tutto ciò che accade nel corpo e nella mente dell'interprete, nel momento in cui quest'ultimo si relaziona attivamente con il suono; il processo comprende quindi dimensioni che trascendono la carnalità e la materialità e che proiettano l'esperienza musicale nel regno ampio della vita interiore.
Nelle composizioni HN, il corpo del musicista è attraversato da una rete capillare di vincoli fisici – alcuni indicati sulla pagina scritta, alcuni affidati alla condivisione orale con l'interprete – nell'ambito dei quali l'interprete agisce estemporaneamente e che ne condizionano a livelli diversi le possibilità di comportamento. Tali indicazioni vanno dalle più macroscopiche, come specifiche azioni del corpo immediatamente udibili, alle più sottili, come determinate modalità respiratorie, o come la contrazione e il rilassamento di muscoli apparentemente non coinvolti nell’azione sonora, o come obiettivi esperienziali precisi ma aperti all'interpretazione soggettiva, racchiusi in simboli espressamente concepiti o implicati nelle stesse indicazioni motorie, tattili, posturali.
Dalla partitura di E allora, oggi, la mano la scorgo spiegare le linee, ordire pazienza (Ciclo HN) per violinista e vocalista (1993-1994):
«AZIONE
Le indicazioni dello spartito non costituiscono semplicemente una partitura di “cose da fare”, ma limiti entro i quali scaricare la propria energia, concentrare la propria delicatezza...: vivendo la propria corporeità, più che articolandola secondo una puntuale intenzionalità musicale.
Il proprio comportamento si nutra degli impulsi provenienti dalla percezione del proprio corpo, assecondando la loro spinta a manifestarsi espressivamente. Evitare l'intenzione “positiva” di rappresentare questa o quella emozione, poiché si correrebbero due rischi: quello di scegliere l'emozione, senza aver intuito nel corpo la tendenza o la disponibilità a incarnarla, e quello di sceglierla in quanto già codificata tanto nella mente quanto nel corpo. Si assecondi e si alimenti, invece, la memoria corporea, non-concettuale – risvegliata dal proprio stesso agire – di esperienze emozionali in modo da ricordare e attuare spontaneamente i comportamenti a esse legati.
Far nascere ogni azione e inazione dalla globalità del corpo, da un impulso interno che coinvolga in un'unità senza fratture la molteplicità di ciò che si percepisce nel proprio corpo. Ogni stesso movimento o stasi sia mirato al continuo aggiustamento di tale equilibrio propriocettivo. I vincoli fisici e le indicazioni presenti nel pezzo (in particolare quelle riguardanti la muscolarità) intendono stimolare questo processo – paradossalmente per certi versi ostacolandolo – e a depotenziare la tendenza a un agire cerebrale e affettato, meccanico e in-cosciente, manifestazione di impulsi ed energie unilaterali, periferiche, non comunicanti tra loro; un agire fatto di gesti più che di azioni (intendendo il gesto come quell'atto che si sostituisce o si sovrappone all'azione vera e propria costituendone la rappresentazione artificiosa, enfatica).
INTERAZIONE
L'interazione tra i musicisti non si basi sull'imitazione reciproca o sulla ricerca “positiva” di relazioni, ma sia quella che si crea spontaneamente quando ogni esecutore riesce o cerca di mantenersi pienamente presente, in ogni istante, a sé stesso e agli altri esecutori.
Essere presenti a sé stessi: ovvero al proprio corpo in ogni sua parte, alle proprie azioni e inazioni, alla propria stessa presenza nell'ambiente. Ciò conduce alla pienezza e all'autonomia del proprio agire rispetto a quello altrui e, cosa altrettanto importante, alla pienezza e all'autonomia delle azioni effettuate con le diverse parti del proprio corpo.
Essere presenti all'altro: ovvero cercare sempre, pur nell'autonomia del proprio agire, di non soffocare completamente la propria percezione – sinesteticamente uditiva, visiva, tattile, intuitiva – delle azioni e della stessa presenza dell'altro. Ciò conduce a uno spontaneo reciproco lasciarsi spazio, necessario a ogni esecutore per continuare a sentire – in tutti i sensi – l'insieme. Non occorre scegliere o forzare il modo in cui creare e occupare questo spazio: lasciare piuttosto che il processo si produca da sé, come naturale manifestazione del processo interiore di sensibilizzazione a ciò che è che che accade qui e ora.
Il processo di sensibilizzazione al qui e ora intende coinvolgere lo stesso ascoltatore che, a questo scopo, si trova a essere nel medesimo spazio in cui sono e agiscono gli interpreti: ciò rende più facile abbandonare l'approccio oggettivo e clinico dell'"osservatore" di fronte a una "rappresentazione", ovvero la tendenza a ricondurre ciò che sta accadendo a un lì e allora.»
Ogni composizione HN è strutturata su tre livelli:
1) L'ordito sincronico delle configurazioni parametriche fissate sulla pagina, che costituisce l'insieme delle circostanze entro cui l'interprete agisce con la massima libertà di cui è capace.
2) L'intreccio dei fatti sonori reali generati dai processi performativi scaturiti estemporaneamente attraverso i parametri. A questo livello, quindi, è l'intelligenza del corpo a comporre.
3) Il dispiegarsi diacronico, nuovamente fissato sulla partitura, dell'ordito parametrico.
I livelli compositivi in senso stretto sono il primo e il terzo, e mirano entrambi a creare la pluridimensionalità, la non-linearità e l'impermanenza caratteristiche del secondo livello, costituito dai fatti sonori generati dai processi performativi. Allo scopo di conferire anche al primo e terzo livello questi caratteri, l'organizzazione compositiva letteralmente detta è innanzitutto concepita come una polifonia di parametri, in cui ciascun parametro segue uno sviluppo lineare la cui sovrapposizione, però, genera combinazioni imprevedibili e privi di gerarchie prestabilite tra primo piano e sfondo, suono e silenzio, semplice e complesso. Il termine "composizione" va riferito quindi non solo all'architettura musicale visibile sulla pagina ma a quella che, causata dalla partitura, sorge nel momento reale dell'esecuzione. Non esiste inoltre una partitura definitiva del pezzo: tramite un complesso algoritmo è possibile realizzare infinite stesure della composizione. Algoritmo e corpo puntano entrambi, quindi, a realizzare una forma aperta alla trasformazione perpetua, ovvero a un accadere in cui l'irripetibile prenda vita sistematicamente
Il carattere temporale che ne deriva è radiale più che lineare, nel senso che qualunque momento può costituire l'inizio o la fine dell'accadere musicale, non perché i diversi momenti si somiglino morfologicamente, ma perché c'è un centro virtuale, costituito dalle infinite possibilità combinatorie generate dal calcolo compositivo e dall'azione performativa, da cui si irradiano le inesauribili attuazioni concrete di tali possibilità.
Tutto è calibrato allo scopo di evitare che prevalgano l'uno sull'altro gli estremi opposti, preservando al tempo stesso la loro pienezza protagonistica: carnalità e interiorità, concretezza e astrattezza, intellettualità ed emotività.
Nonostante, però, la grande attenzione riservata a mantenere questi equilibri, e in particolare la cura dedicata a conservare l'integrità esperienziale del fatto musicale, ovvero a concepire la dimensione corporale come veicolo per accedere a forze sottili che accendano la percezione di noi stessi e del qui e ora (attenzione posta fondamento del lavoro da me condotto a diretto contatto con gli interpreti, lavoro che nel Sistema HN svolge un ruolo cruciale), dopo alcuni anni il sempre più intenso carattere corporale della mia ricerca, cominciò a ritorcersi contro il risultato che si prefiggeva. L'estremizzazione della fisicità e della tangibilità dei suoni iniziò a un certo punto a non andare più di pari passo con la loro radicalizzazione.
Provo a spiegare meglio questa necessità di coniugare estremismo e radicalità: un fatto sonoro molto fisico veicola una certa energia affettiva; se la fisicità si fa più esplicita e libera, l'energia affettiva può farsi più intensa, come possiamo verificare quando impariamo a suonare sempre meglio uno strumento e ci lasciamo andare sempre di più all'istinto espressivo del corpo, ovvero all'istinto che sorge dalle zone profonde del cervello e che si manifesta prima ancora che noi si abbia la possibilità di mentalizzarlo. Se però, corroborati da questi risultati, ci spingiamo ancora oltre nel caricare di fisicità la nostra performance, ecco che l'energia affettiva comincia a disperdersi e le radici vitali del processo non arrivano più a nutrire le fronde estreme del risultato.
Questo avviene, a mio avviso, per due motivi. Innanzitutto perché la fisicità, in questo modo, diventa troppo “fatta apposta” e finisce, quindi, con lo scaturire troppo dalle zone del cervello volitive e coscienti (la corteccia cerebrale), e troppo poco da quelle profonde, oscure, inconsce, emozionali (le zone subcorticali), diventando così meno capace di veicolare forze affettive. Inoltre l'eccessiva esposizione della fisicità può mettere in ombra gli aspetti sottili, incorporei e immateriali dell'affettività: troppo corpo può imbarazzare l'anima, sia nel senso che ne può intralciare la risonanza affettiva tramite risonanze esibizionistiche (quindi anti-relazionali, anti-affettive), sia nel senso che può proprio metterla in imbarazzo, stimolando resistenze e pudori e inibendone la serenità d'espressione (come accade quando veniamo sedotti in maniera troppo aggressiva). In breve la troppa nudità può diventare un alibi per non metterci davvero a nudo, nonostante le nostre migliori intenzioni. Per citare Maurice Merleau-Ponty, “il soggetto non ha bisogno di cercare le mani o le dita, poiché questi non sono oggetti da trovare nello spazio oggettivo, non sono ossa, muscoli, nervi, ma potenze già mobilitate [...], l'estremità centrale dei «fili intenzionali» che lo collegano agli oggetti dati. Non muoviamo mai il nostro corpo oggettivo, ma il nostro corpo fenomenico, e ciò non ha nulla di misterioso, giacché era già il nostro corpo, come potenza di queste o quelle regioni del mondo, a levarsi verso gli oggetti”[1]. Il corsivo è mio: non siamo carne pura, siamo carne viva, ed è alla vita della carne che occorre mirare, non alla carne in sé. Inoltre l'enorme complessità delle azioni fisiche che stavo giungendo a concepire stava rischiando di mettere in ombra se stessa, perché troppa complessità si ribalta facilmente in rumore comunicativo indifferenziato, rendendo così inavvertibile la carica di senso intrinseca in ciascun dettaglio.
Fase HN 2 (dal 1997)
Con il Ciclo Ma vero (1997-2012), volli quindi distillare e concentrare le azioni performative, per farne precipitare il carattere corporale e materico nella profondità del suono e dell'atto stesso. Per esempio: se produco un suono vocale a volume così basso da riuscire a mettere le corde vocali in vibrazione senza arrivare a farle toccare tra di loro – è difficilissimo, ma si può; si tratta della tecnica delle vibrazioni nascenti, che ho ideato e messo a punto con Renato Gatto, interprete di Ma vero (1997-2006), per quattro lamiere HN, tre voci, clarinetto e superficie risonante – ecco che ho dato vita a un'azione il cui carattere fisico è fortissimo ma sublimato, trasceso, percepibile come fatto fisico più poeticamente che letteralmente, non riconducibile dall'ascoltatore all'idea e alla sensazione immediata di fisicità: ciò che udiamo è la presenza, sottile e intensa, più ancora che l'azione dell'interprete. Se, al contrario, produco un suono vocale tramite una spinta fortissima del diaframma, serrando però le false corde in maniera da far passare solo una minima quantità d'aria e producendo così un suono medio-grave estremamente strozzato, accompagnato da un sibilo udibilissimo prodotto dalle false corde stesse, ecco che avrò creato un'azione estremamente fisica, sì, ma magicamente ribaltata in altro da sé, perché il bicordo che ne deriva trascende nuovamente la fisicità per farsi mistero vibratorio. È la tecnica del suono mazzamuto (ideata e messa a punto con Marco Crescimanno, anch'egli interprete di Ma vero) la cui iperespressività risulta drammaticamente soffocata dallo stesso sforzo parossistico compiuto dal performer, perdendo così il carattere di espressione deliberata e dispiegata, e apparendo all'ascolto come la manifestazione di un'intensissima corrente emotiva che utilizza il corpo dell'interprete per esprimersi. Sia nelle vibrazioni nascenti che nel suono mazzamuto, quindi, l'energia affettiva torna in primo piano, attraverso il carattere disincarnato delle prime o massimamente incarnato del secondo. In entrambi i casi risuona, come detto, la presenza dell'individuo-interprete: presenza intesa in senso non ontico bensì ontologico, ovvero non solo come presenza tangibile nella stanza ma come vivo esser-ci, come intenso e irripetibile umano esistere hic et nunc. Questo l'obiettivo centrale di tutta la mia ricerca, l'esperienza del suono essendone veicolo privilegiato e non scopo.
Tale energia affettiva-presenziale-esperienziale è veicolata dal corpo, e se quest'ultimo, invece di manifestarla in maniera diretta come nelle tecniche vocali appena citate, la proietta verso un foglio d'acciaio dalla straordinaria capacità di risposta vibratoria, ecco che, nuovamente, il carattere corporale dell'atto può precipitare nelle segrete del fatto sonoro e, da lì, governarlo mettendo in tal modo a frutto tanto il mistero abissale della vibrazione acustica quanto quello dell'espressione fisica che, in questo caso, agisce come la mano di un burattinaio, impugnando il suono da dentro e animandolo di umanità. Ecco come è nata l'idea della Lamiera HN®, evoluzione della lastra del tuono che permette a quest'ultima di uscire dai limiti dell'uso coloristico, trasformandosi in veicolo di espressione solistica del corpo-anima dell'interprete.
Per giungere a questa condensazione/rarefazione della fisicità mi fu necessario sintetizzare in modo nuovo la parametrizzazione delle azioni esecutive. I parametri di cui l'interprete avrebbe tenuto conto rimasero numerosi, ma conferii loro un'ambiguità maggiore intrecciandoli l'uno con l'altro in una forma ancora più organica. Il processo di apprendimento cambiò di conseguenza: mentre prima l'esecutore si trovava di fronte a una gabbia di parametri esatti – tracciati nella partitura – che doveva imparare a padroneggiare distintamente per poi incarnarli fondendoli in un flusso di radicale libertà impulsiva, nel Ciclo Ma vero, la pagina indica al performer una modalità di emissione sonora e di espressione energetica precisa ma non scomponibile in parametri nettamente distinti; sotto la mia guida l'interprete deve quindi cercare dentro se stesso le condizioni che rendano possibile quella manifestazione sonora ed energetica. Quando si arriva a dominare quel preciso atto sonoro (che siano le vibrazioni nascenti o il suono mazzamuto o una delle numerose azioni esecutive concepite per la Lamiera HN), lo si può articolare con immensa libertà, a patto di non rompere l'equilibrio di volontarietà e involontarietà che lo caratterizza. È cruciale che emerga l'essenziale risonanza affettiva del suono. È come quando un regista chiede a un attore di sorridere: l'attore segue le indicazioni del regista, ma senza perdere il contatto con la forza sorgiva, spontanea del proprio sorriso. La notazione nel Ciclo Ma vero è quindi estremamente semplice ma il training di preparazione degli interpreti, pur avendo cambiato forma, è rimasto lungo, complesso e profondo.
Questo apparato performativo, al tempo stesso concreto ed evanescente, aveva bisogno di un adeguato apparato compositivo, che mi permettesse di comporre l'esperienza di esserci[2], ovvero di non rischiare di restare impigliato sul piano oggettivo dei fatti corporali e sonori. Venne in mio aiuto il principio del jo-ha-kyū, preso in prestito dal teatro Nō giapponese, che mi permetteva di articolare l'energia dei fatti e degli atti in maniera indipendente dalla loro morfologia. Secondo Motokiyo Zeami (1363-1443), teorico del teatro Nō, ogni fenomeno che accade nell'universo si articola in tre fasi: jo, in cui il fenomeno si manifesta nei suoi aspetti essenziali; ha, in cui emergono la sua complessità e i suoi conflitti interni; kyū, in cui la sua energia raggiunge l'apice per poi tornare al riposo e creare spazio a un nuovo jo. Naturalmente l'attenzione alla morfologia di fatti e atti restava fondamentale per creare un accadere dotato di coerenza, di una coesione sintetica necessaria per percepire la forza della temporalità più che le forme che via via assume, e per accendere così la risonanza di un adesso abissale.
Lavorai per anni con soddisfazione in questa direzione. Da un certo momento, però, cominciai nuovamente a sentire che la mia perseveranza stava rischiando di produrre esiti capovolti rispetto alle mie intenzioni. Puntare direttamente all'impatto affettivo può appiattire il risultato estetico, quando questo, per la dimestichezza artigianale ormai acquisita, tende a scivolare nella tentazione di non essere più sorretto da un processo esperienziale difficile, complesso e profondo. Risolvere nel mistero vibratorio del suono il carattere corporale dell'azione è un obiettivo fertile ma, nel perseguirlo in maniera sempre più estrema, si può cadere nella routine e perdere l'urgenza di radicalizzarlo. Se l'atto fisico e il fatto acustico vengono idealizzati e assolutizzati, senza mantenere il contatto con le radici carnali e interiori da cui sorgono e da cui traggono nutrimento, si impoveriscono, diventano didascalici e manierati, come accade in molte opere accolte con troppa facilità nel difficile regno della "performance art" o della "sound art".
Nel Ciclo Ero già a me (2004-2015), decisi quindi di approfondire il lavoro esplicito sulla risonanza affettiva e spirituale del suono, affiancando all'indagine sul processo performativo dell'interprete quella sul processo performativo dell'ascoltatore. Esiste una performance dell'ascolto, che ci permette di entrare in contatto con le zone profonde della nostra mente come quando entriamo in uno stato di trance. È una performance guidata dal suono, indipendentemente dal fatto che questo venga o non venga direttamente prodotto da un corpo. Da questa ricerca nacque Ero già a me nº 2 (2004-2010), composizione acusmatica per lamiere, superfici risonanti ed elaborazione elettronica, nel quale il processo corporale è ancora presente, perché i suoni iniziali furono prodotti fisicamente con gli strumenti, ma viene spinto in zone sempre più profonde del suono fino a essere pressoché irreperibile all'ascolto. Mi immersi lungamente nelle forze psichiche racchiuse nei processi di ascolto del suono, affinché mi ispirassero la forma compositiva necessaria per renderle udibili; si confermò ancora una volta prezioso il ricorso al principio del jo-ha-kyū, già utilizzato in Ma vero.
Il Ciclo Ero già a me segnò però anche il graduale ritorno alla corporalità esplicita, perché naturalmente i due versanti – incarnato e disincarnato – non debbono contrapporsi ma integrarsi. Nacquero così lavori come Ero già a me nº 4 (2004), per Lamiera HN e danzatore, o le composizioni per pubblico attivo in cui gli ascoltatori partecipano all'esecuzione guidati dall'interprete, e vide la luce anche il mini ciclo Ero già a me nº 85 (a/b/c/etc.) (2006-2015), costituito da studi per Lamiera HN solista o ensemble di lamiere. Tali studi hanno carattere contrappuntistico, ovvero applicano le logiche contrappuntistiche al suono complesso aperiodico della lamiere, differenziando le varie “voci” strumentali grazie alle distinte forme sonore generate da una selezione di tre sole azioni esecutive, e plasmando la condotta delle parti in base alla loro dinamica. L'energia corporale e la qualità materica tornarono così a essere tematizzate esplicitamente, diventando oggetto di variazioni, soggetto e controsoggetto di fughe, e materiale per corali, preludi e canoni rigorosi.
Fase HN 3 (dal 2012)
Nella nuova fase di lavoro ho scelto di unire nella maniera più organica possibile gli universi esplorati durante le fasi HN 1 e HN 2: immergermi nell'incandescente mondo corporale della fase HN 1 puntandogli addosso la luce delle intuizioni sonoriali acquisite durante la fase HN 2 e, dal lato opposto, scendere negli abissi psichici della fase HN 2 ampliandoli attraverso una vitalità fisica focalizzata agli albori della fase HN 1 ma sempre più capillare e spalancata sulla felicità e il coraggio di esistere – sbloccati grazie all'emersione, nel 2007, di strazianti ricordi di infanzia e giovinezza. Emersione apparentemente improvvisa ma preparata da un ventennale lavoro su me stesso e che ha a sua volta innescato una catena di fertili trasformazioni esistenziali.
Sono nati così strumenti musicali come l'incCubo® e il Grande incCubo®, che costituiscono un'elaborazione della Lamiera HN ed esplicitano la relazione corporale da stabilire con lo strumento. Le Percussioni HN® (come ho chiamato la famiglia di strumenti così formata) si suonano tramite il coinvolgimento di tutto il corpo e tramite azioni che comprendono anche i movimenti involontari dettati direttamente dall'emozione. Per imprimere questa concezione allo strumento stesso, l'incCubo e il Grande incCubo sono dotati di due cinghie, a cui l'interprete viene legato all'altezza della vita, e da maniglie che possono essere afferrate con le mani. Inoltre la lamiera a cui l'interprete è vincolato viene circondata da altre lamiere, manovrabili tramite altre maniglie o attraverso lunghe corde collegate allo strumento principale. In questo modo ogni spostamento nello spazio, ogni inclinazione, ogni respiro dell'interprete producono suoni in parte controllabili e in parte indomabili. Il corpo è protagonista, ma ancora di più lo è la vita emotiva che lo anima: le Percussioni HN non vengono suonate solo con tutte le parti del corpo – effettivamente coinvolte nella produzione sonora – ma con la sua interezza: lo strumento viene suonato tramite le convulsioni, gli abbandoni, gli slanci, l'immobilità del corpo intero, controllabili per via emotiva ancor prima che tecnica.
L'unione di controllo tecnico e controllo emotivo (sottolineo controllo, non necessariamente autocontrollo) è ciò che ci permette di parlare di processo performativo. Se non è coinvolta la dimensione emotiva dovemmo limitarci a chiamarlo processo esecutivo, come sa ogni vero interprete. A partire dal Ciclo Il nulla non è neutro (2015-2017) ho quindi cominciato a parametrizzare e fissare sulla partitura, con ancora più meticolosità, le correnti sotterranee che determinano la vita interna della presenza e dell'azione e che costituiscono da sempre il centro della mia ricerca. Ho dovuto perciò inventare nuovi parametri, che ho chiamato endocorporali, contrapposti a quelli esocorporali che finora avevano prevalso come simboli espliciti nelle mie partiture.
Come ho appena detto, i parametri endocorporali, fissati o meno sulla pagina scritta, hanno sempre costituito la base del mio lavoro con gli interpreti. Ne è un esempio il parametro della muscolarità, presente già nelle partiture del Ciclo HN, che prescrive all'interprete lo stato di rilassatezza o contrazione di muscoli non necessariamente coinvolti nell'azione sonora. Tale parametro è già endocorporale perché, pur essendo la sua realizzazione esplicitamente fisica, la sua funzione è quella di cambiare le percezioni, gli stati e gli slanci espressivi dell'interprete, quindi di interferire con il versante interno della sua corporalità.[3] Un altro esempio, ancor più esplicito, è costituito dal Ciclo AE, creato nel biennio 1993-94 mentre portavo a termine il Ciclo HN. In quel ciclo di composizioni i parametri esocorporali e strumentali sono ridotti al minimo, mentre assumono un ruolo centrale i parametri denominati cond-azioni mentali, ovvero azioni mentali che contano per le condizioni interiori in cui proiettano l'interprete almeno quanto per ciò che gli chiedono di fare. Bastandosi la nuca a scorrere dietro la fronte, una delle due composizioni del Ciclo AE, è per mente sola, viene cioè eseguita nella mente dell'interprete-fruitore, senza alcuna presenza di pubblico.[4]
Con il Ciclo Il nulla non è neutro ho cominciato a organizzare l'endocorporalità in due principali categorie: Body ACTION e Body IGNITION. La Body ACTION è costituita da una serie di azioni che coinvolgono l'intero corpo dell'interprete, come se questo, indipendentemente dallo strumento di destinazione della composizione, stesse suonando un'invisibile Lamiera HN. Tali azioni influenzano enormemente quelle espressamente legate allo strumento suonato e, soprattutto, conducono l'interprete a vivere pienamente con tutto il corpo la propria performance. Alcuni esempio di Body ACTION sono lo Scribble, la Es-Ich Tanz, l'HN Flux, azioni di cui, per pigrizia, non darò qui alcuna descrizione ma i cui nomi possono suggerire alcune caratteristiche. Questi parametri svolgono una funzione analoga a quella della cinghia a cui è vincolata la vita dell'interprete che suona l'incCubo. Guarda caso si chiama vita. Il legame tra individuo e strumento si fa totalizzante.
La Body IGNITION, letteralmente accensione del corpo, è invece costituita da una serie di parametri che stimolano l'interprete a incendiare l'azione in diversi modi, dal più commosso al più furente, dal più quieto al più convulso. Body ACTION e IGNITION sono strettamente collegate tra loro e, a livello strettamente motorio, talvolta tendono a dissolversi l'una nell'altra, ma rimangono concettualmente ed esperienzialmente distinte: la Body ACTION prescrive cosa fare, la Body IGNITION prescrive come vivere ciò che si fa. A puro titolo esemplificativo, racconto che tra le forme di Body IGNITION troviamo la danza di intenzione, che chiede all'interprete di vivere esplicitamente in tutto il corpo la propria intenzione musicale, come un direttore d'orchestra interno; oppure la danza di danza, che chiede all'interprete di abbandonarsi a una danza del tutto spontanea e priva di scopi che finisce col nutrire in modi imprevedibili la sua azione strumentale/vocale. Un altro esempio è il parametro 4'33", che in alcuni pezzi è classificato come Tacet IGNITION e che talvolta viene modulato in tre valori 4'33", molto 4'33", più 4'33" possibile (secondo una scala tipica del Sistema HN), che suggerisce quanto spazio lasciare al proprio tacere durante l'esecuzione. Il parametro in alcuni casi viene articolato anche nel suo inverso: poco 4'33", molto poco 4'33", meno 4'33" possibile.
Altra forma di Body IGNITION è il parametro denominato intenzione acustica, articolato in due simboli che indicano un'intenzione penetrante o avvolgente nei confronti dei suoni circostanti. Gli esiti sonori innescati da un simbolo o dall'altro possono non essere palesemente diversi l'uno dall'altro, ma l'interprete, col mutare dell'intenzione prescritta, avverte un sottile e nitido cambiamento nel proprio comportamento performativo. In ultima analisi, quindi, la specificità di ciascuna intenzione è udibile, pur se per vie misteriose come d'altronde sempre accade nella musica. L'ultimo esempio di Body IGNITION che cito è l'azione fantasma: un libero flusso di spasmi volti a trasmettere complessità motoria all'azione sonora e a stimolarne la creatività. Tutte le Body IGNITION, in fondo, sono azioni fantasma, non nel senso che siano invisibili o impalpabili ma nel senso che diventano lo spirito che anima l'azione.
Il complesso di Body ACTION e Body IGNITION intende sostituire una tecnica esecutiva che costituisce uno dei fondamenti di Sempre più ampio il mio sguardo fisso alla morte, per due pianisti (1991-94) (dal Ciclo HN), ovvero il concreto contatto fisico tra gli interpreti che, in quella composizione, spesso devono suonare ciascuno il corpo dell'altro, oppure tramite il corpo dell'altro impugnandone la mano e usandola al posto della propria, oppure contro il corpo dell'altro opponendogli fisicamente resistenze opportunamente parametrizzate. Body ACTION e Body IGNITION aspirano quindi a essere un interprete dentro l'interprete, una sorgente di forze autonome rispetto a quelle dell'azione sonora, che disturbano, stimolano, vincolano, nutrono quest'ultima, potenziandone la vitalità imprevedibile, l'HN più acceso.
Nella fase HN 3, inoltre, sto esplorando parametri esperienziali ancora più sottili di quelli citati, come GRATIA, che indica in grazia di chi suonare quella battuta o, per dirla in forma opposta, chi accogliere nella propria grazia (dal punto di vista HN le due forme si equivalgono, perché essere accolti e accogliere sono solo i due versanti complementari dell'esperienza della comunione umana), cioè a chi far dono di sé, a chi consacrarsi emotivamente, a chi esprimere gratitudine: a un ascoltatore a scelta (e, per grazia di quello, a ciascuno degli altri), a tutti, a uno poi a un altro poi a un altro ancora... Far dono di sé è la grazia che qualunque interprete devoto conosce, perché al dono gratuito corrisponde quasi sempre un controdono commosso, turbato o grato del fruitore.
Oltre a questi nuovi parametri esplicitamente endocorporali, negli ultimi anni ho alimentato il potenziale endocorporale di parametri HN già esistenti. Già a partire dalla fase HN 2 il volume dei suoni, per esempio, può scendere al di sotto del più piano possibile, toccando l'estremo che chiamo contributo magico, ovvero un suono che l'orecchio non ha la certezza immediata di sentire, un volume che crea una presenza non pienamente manifesta del suono, una presenza magica, una sensazione di suono che spinge la mente dell'ascoltatore verso dimensioni semiconsce che ne facilitano il coinvolgimento emotivo profondo. Con la fase HN 3, inoltre, il contributo magico si è radicalizzato, articolandosi in contributo magico, molto magico, più magico possibile. Tali diciture corrispondono a precisi obiettivi percettivi (rispettivamente: volume liminale per l'ascoltatore; volume liminale per l'interprete e quindi inudibile per l'ascoltatore essendo quest'ultimo più lontano dallo strumento; volume inudibile sia per l'interprete sia per l'ascoltatore) ma possono essere intese più intuitivamente come indicazioni per produrre un suono caratterizzato da una presenza acustica, una qualità vibratoria, un'aura evanescente, irreale, “metafisica”. In qualunque modo lo si interpreti, il contributo magico, come tutti i parametri HN, va studiato col massimo rigore e interpretato con la massima libertà istintiva, osando anche "sbagliarlo", affinché il suo carattere percettivo si ampli in carattere esperienziale, spingendo l'interprete ad addentrarsi in se stesso, nel suono, nello spaziotempo circostante e a immedesimarsi nell'ascoltatore, tanto quanto l'ascoltatore è chiamato a immedesimarsi nell'interprete. In questa maniera il ciclo del contagio esperienziale, fondamento del Sistema HN, si chiude, anzi, si apre ulteriormente accogliendo sempre di più l'interezza di ciò che è e che accade qui e ora.
© 2021 Dario Buccino
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[1] Merleau-Ponty M., Fenomenologia della percezione, Firenze, Milano, Giunti, Bompiani, 2018, trad. Bonomi A., p. 160
[2] Devo la felice espressione “comporre l'esperienza” a Stefano Lombardi Vallauri e al suo approfondito articolo The Composition of Experience (and its Notation) in the Musical-Holistic Art of Dario Buccino (EuroMAC 2014 – 8º Convegno Europeo di Analisi Musicale, Leuven, Belgio 2014, in dossier Analysis Beyond Notation in XXth and XXIst Century Music, ed. Alessandro Bratus e Marco Lutzu, El Oído Pensante, 4/1, 2016).
[3] Per la cronaca, fu proprio questa intuizione, fondamentale per la nascita e l'efficacia del Sistema HN, a spingere nei primi anni novanta il mio ultimo docente di composizione in conservatorio a dirmi che stavo inseguendo l'aria fritta, e spinse perfino Iannis Xenakis, che andai a trovare a casa sua nel 1995, a dirmi che stavo mancando l'obiettivo del suono. Pareri che già allora mi sembrarono insipienti ma che adesso, a distanza di decenni, considero che abbiano del tutto mancato, loro sì, l'obiettivo. La forza espressiva del suono dipende dalle correnti sottili che lo generano e governano, non solo dalle sue cause immediate. La qualità di costruzione di un pianoforte incide sul risultato sonoro tanto quanto lo stato di un muscolo e tanto quanto possono plasmarlo le forze che muovono le molecole di un gas (principio quest'ultimo approfonditamente indagato da Xenakis per creare il proprio mondo sonoro, sentendosi dire dai bacchettoni della sua epoca che stava mancando l'obiettivo della musica). Con mio grande sollievo ho potuto osservare che, negli ultimi venti anni, la situazione culturale sta lentamente cambiando, e comincia a non essere più un evento raro incontrare interpreti, studiosi e organizzatori che comprendono realmente il senso di una ricerca compositiva fondata sui processi performativi profondi (anche se la versione modaiola del corporale/gestuale/site-specific, incagliata sulla superficie di ciò che crede di penetrare, tende a prevalere, inquinando la percezione delle concezioni più serie). Per fortuna, quando i tempi erano bui, ho avuto fin da subito i miei sostenitori, come Heinz-Klaus Metzger, te, Stefano lombardi Vallauri, Marco Crescimanno, Giovanni Damiani e il compianto Lelio Giannetto, che mi hanno aiutato a non perdermi d'animo nella mia ricerca della «forza archetipica del suono attraverso il corpo dell’interprete [...] estraendo dunque gli eventi sonori da ogni minimo moto del corpo umano» (Misuraca P., ‘Il Suono dei Soli’ e le lamiere di Dario Buccino, in Curva Minore Contemporary Sounds, ed. Gaetano Pennino, Casa museo Antonino Uccello, Palazzolo Acreide, 2009, pp. 98-111).
[4] Cito l'efficace sintesi di questo mio lavoro presentata da Elisa Corpolongo:
«Nel 1994, prende piede un esperimento ideato per il “corpo interno” attraverso l’utilizzo dei sensi: Dario Buccino inventa una partitura per “mente sola”. Ci troviamo dinanzi a un’idea di corpo sensoriale che tenta di colmare la frattura storica tra involucro e intelletto e che consente al corpo di diventare mente – e viceversa – attraverso l’uso esteso di parametri sensoriali. Parlo di parametri sensoriali perché l’utilizzo del corpo non si esaurisce nella parola “sensi”. Il corpo è qui, in un certo modo, assente e presente al contempo. Non si tratta di un corpo in mostra che agisce e si esplica spazialmente: la partitura può essere infatti eseguita internamente dall’interprete attraverso l’interpretazione di simboli appositamente inventati che rimandano a modalità sensoriali, attraverso le quali si può percepire qualcosa piuttosto che qualcos’altro. Si tratta di scegliere le azioni mentali da compiere (tempo compreso) a partire dai sensi – incluso il cervello.
La particolarità della grafia utilizzata è forse inversa rispetto a quanto avviene nei Capricci di Sciarrino. Il movimento non è qualcosa da esternare, bensì da interiorizzare. Non è utile, quindi, in questo caso, un segno grafico che rimandi al movimento fisico da dover espletare nello spazio e, di fatto, lo spazio stesso non esiste se non internamente: si tratta di evocare, partendo dai sensi, delle condizioni, dei collegamenti dall’esterno all’interno.
Tutto esiste dentro il corpo e l’orecchio esterno perde il suo primato di ricettore del suono. Il suono stesso muta in qualcosa di diverso. Non è più importante che esista un timbro, bensì una percezione di sé e della propria e personale tangibilità. In effetti, l’unica attenzione al suono propriamente detto compare nella distinzione tra rumore e silenzio. Nessun timbro è richiesto; tutte le prescrizioni sono di natura corporea e dirette all’unico recettore possibile: l’interprete.»
(Corpolongo E., Togliere il suono per trovare il corpo. Quel che resta del corpo nella musica contemporanea, tesi del corso di diploma accademico di II Livello in Composizione, relatore Gabriele Manca, Conservatorio di Musica Giuseppe Verdi di Milano, A.A. 2018-2019, pp. 19-20)