«Che tipo di musica fai?»
E' la domanda che mi sento rivolgere più spesso, quando racconto di essere musicista.
Mi viene rivolta soprattutto, ma non esclusivamente, da chi musicista non è. Si tratta di una domanda a cui non è facile rispondere, sia perché non mi occupo di un solo tipo di musica, sia perché i tipi di musica che mi interessano di più chiedono disperatamente di non essere rinchiusi in definizioni, categorie, tipi o generi. E non perché non rientrino in alcuna categoria o perché tentino necessariamente il cross-over tra generi diversi, ma perché il modo stesso in cui desiderano esistere è antigenerico e antischematico.
Ma non voglio perdere tempo con introduzioni astratte e, appunto, generiche.
Veniamo al punto.
Tenterò di rispondere una volta per tutte alla fatidica domanda, senza tradire il mio pensiero ma senza neanche tradire la sfida di formulare una risposta accessibile anche a chi ha poca dimestichezza con la musica.
Il cuore della mia attività musicale è la musica di ricerca.
Musica di ricerca: termine ampio e ambiguo!
Io lo intendo nel senso più radicale che gli si possa dare:
una musica che cerchi di scoprire i segreti stessi della musica.
Nei secoli passati si sono scoperti segreti infiniti e abissali riguardanti la musica.
Ogni epoca e ogni cultura ha formulato le sue regole tecniche basate sui diversi segreti di cui era custode.
La cultura occidentale, ad esempio, ha inventato un sistema molto complesso e raffinato di regole che governano l'uso delle "note". Questa nota la si può usare insieme a quest'altra, questa invece è proibita, a meno che non sia anticipata da una nota mediatrice, etc... L'insieme di queste regole forma ciò che chiamiamo "armonia" e "contrappunto". Si tratta di regole che hanno come cardine il concetto bipolare di consonanza-dissonanza.
In altre culture l'opposizione consonanza-dissonanza non esiste, o se esiste ha tutto un altro peso o altri modi di essere gestita. Questo non vuol dire che quelle culture non abbiano, nei confronti del suono e della musica, una sensibilità "armonica" (intesa come sensibilità per l'amalgama armoniosa dei diversi suoni) o "contrappuntistica" (intesa come sensibilità per l'intreccio simultaneo e non caotico di melodie distinte). Significa solo che la loro sensibilità ha forme diverse e, ancora di più, che quella sensibilità ha dettato loro regole tecniche completamente diverse, generando costruzioni sonore radicalmente altre rispetto alle nostre.
Alcune culture hanno sviluppato una sensibilità molto acuta e raffinata nei confronti del ritmo. I ritmi della musica tradizionale indiana, tanto per fare un esempio, sono di una complessità tale da far impallidire la maggior parte dei musicisti occidentali (me, per esempio). Di nuovo, questo non significa che noi non abbiamo sensibilità ritmica, significa che la nostra sensibilità ritmica è completamente diversa e porta dentro di sé implicazioni simboliche profondamente diverse.
Ma una cosa accomuna quasi tutte le culture del mondo: l'importanza rivestita dalle "note" e dal "ritmo".
Possiamo dire che il materiale su cui tutte le epoche hanno costruito i loro sistemi musicali, possono essere riconducibili – in un senso talvolta molto mediato e sottile – alla pratica del canto e a quella della danza. E' una semplificazione estrema, ma può servire a muoversi in maniera meno cieca in quanto sto per dire.
Il pensiero musicale occidentale contemporaneo, nel suo mettere in discussione tutti i fondamenti precedentemente dati per scontati (messa in discussione che è in armonia col processo di smantellamento di ogni certezza, tipico del pensiero contemporaneo non solo musicale: psicanalisi, filosofia, politica, scienza, religione...), ha provato a mettere in discussione anche – e certamente non solo – il valore delle "note" e del "ritmo". O quantomeno il valore della loro funzione "cantabile" e "danzabile".
Certo, non tutta la musica contemporanea lo ha fatto. Ci sono state infinite correnti di pensiero, all'interno e anche all'esterno delle frange dell'avanguardia, che hanno invece difeso tenacemente proprio la cantabilità e la danzabilità (nei sensi più toccanti di questi termini) della musica (l'esempio più lampante è quello della musica rock). Ma di fatto tutte le correnti musicali del nostro secolo (ormai passato!) hanno cercato anche ben altro.
Prendiamo nuovamente come esempio la musica rock: la melodia gioca un ruolo importante (vedi il peso assunto dalla figura del cantante e del chitarrista solista), il ritmo gioca un ruolo altrettanto importante (vedi l'importanza strutturale – e non solo, quindi, coloristica – assunta dalle percussioni, in particolar modo dalla batteria), ma non possiamo certo affermare che il rock si contraddistingua solo per questi due aspetti. Il suono in sé, infatti, (il cosiddetto "sound") riveste un'importanza enorme. Non si può neanche dire, d'altronde, che questa sia una conquista in controtendenza rispetto alle tradizioni più antiche del pensiero musicale occidentale. L'importanza delle regole dell'armonia e, soprattutto, dell'orchestrazione testimoniano l'importanza enorme attribuita da sempre (nella nostra cultura e non solo) alla questione della "sonorità d'insieme" della costruzione musicale.
Ma ecco che arriviamo al punto.
Conosciamo molti segreti dell'armonia e del contrappunto, segreti che ci permettono di assemblare tra loro diverse note arrivando a farle parlare alla nostra sensibilità affettiva. Sappiamo come scrivere una melodia che tocchi il cuore, per dirla in maniera grossolana.
Conosciamo molti segreti del ritmo, segreti che ci permettono di usare il suono per smuovere le viscere e l'intero corpo. Sappiamo come scrivere un pezzo che faccia venire voglia di ballare, per dirla di nuovo in maniera grezza.
Ma se provassimo a muoverci nel campo della pura "sonorità", eliminando qualunque melodia e qualunque ritmo, quali sono i segreti del suono che ci permetterebbero di manipolarlo e assemblarlo in maniera non sterile? Come commuovere e smuovere l'essere umano, senza far ricorso alla melodia cantabile e al ritmo danzabile? E soprattutto – è possibile?
La forza misteriosa del suono non può risiedere solo nella melodia e nel ritmo. Non c'è dubbio. Anche questa è una considerazione che nasce dall'osservazione delle musiche di tutto il mondo e di tutte le epoche. Non esiste sistema musicale che possa essere ridotto, senza residui importanti, alle regole con cui organizza le note e le loro durate (cioè, in senso lato, la melodia e il ritmo).
Ma le forze del suono che si nascondono al di là (o forse dovremmo dire al di qua) della melodia e del ritmo, sono sufficienti a sostenere una costruzione "musicale" propriamente detta? Sono sufficienti a sostenere una costruzione che "parli" simultaneamente a cuore, viscere e cervello, senza mortificare, senza far sentire escluso dal gioco nessuno dei tre?
Il pensiero musicale contemporaneo, più o meno esplicitamente, tenta di dare, secondo me, una risposta a questo quesito.
Io, esplicitamente, tento di dare il mio contributo, le mie risposte – o, meglio, il mio modo di porre la questione e di indagarla.
La mia musica spesso cancella in maniera quasi totale ogni percezione melodica e ritmica, per lavorare sulla "pura" polpa incandescente del suono.
Rimangono molti parametri a disposizione, molti di più di quanto comunemente si pensi. Vediamoli uno per uno, isolandoli, pure se con qualche forzatura schematica.
Rimane innanzitutto il "volume". L'articolazione compositivamente oculata del "piano", del "forte" e delle infinite vie intermedie, nasconde in sé un potenziale espressivo, o comunicativo, o evocativo che dir si voglia, immenso.
Poi c'è il regno abissale che una volta veniva chiamato semplicisticamente "timbro". Sotto i piedi di questa parola si spalanca un universo di aspetti del suono (il cosiddetto colore del suono, la sua consistenza, la sua mobilità interna, il suo modo di spargersi o proiettarsi nello spazio, e infiniti altri aspetti ai quali per ora la teoria musicale non è ancora riuscita a dare nomi soddisfacenti e, soprattutto, universalmente condivisi).
Poi – e questo è un aspetto a me particolarmente caro, anche perché è quello che nei decenni passati è stato esplorato in maniera meno sistematica, meno organica, meno "forte"... – c'è quello che potremmo chiamare il "contagio esperienziale", intendendo con questo termine il modo in cui l'ascoltatore, quando ascolta un'esecuzione musicale, si immedesima nella dimensione psicofisica di cui è preda l'esecutore stesso nel momento dell'atto di produrre e modulare il suono. (E viceversa! Perché l'esecutore a sua volta percepisce le reazioni e lo stato psicofisico dell'ascoltatore, e ne rimane – in un modo o in un altro – contagiato.)
Ovviamente quest'ultimo parametro non esclude dal gioco le reazioni psicofisiche suscitate – tanto nell'esecutore quanto nell'ascoltatore – dal suono in sé. Voglio però sottolineare come, in musica, il "suono in sé" non esista. Non c'è mai un suono "in sè", c'è sempre un suono "in quanto prodotto" da qualcuno (dal vivo o registrato) e, nel caso della musica elettronica "pura" (quella prodotta dai computer), un suono "in quanto organizzato" da qualcuno.
Poi (e dopo mi fermo, perché il terreno di indagine più fertile è quello della relazione tra tutti questi aspetti, e la relazione è un territorio che per sua stessa natura tende irriducibilmente a sfuggire alla razionalizzazione) poi, dicevo, c'è il "contagio esperienziale" che avviene tra chi compone il suono (nel caso della musica scritta, o comunque non improvvisata), chi lo esegue e chi lo ascolta.
Ricordiamoci che non stiamo parlando solo di "invenzione di suoni", ma di "creazione di musica". Ovverosia creazione di forme definite ed esatte impresse al suono: prima questo suono, poi quello, poi quello insieme a quell'altro... Il tutto considerato in scala grande (la forma globale del pezzo di musica), piccola (l'articolazione di ogni dettaglio sonoro), grandissima (tanto l'insieme dei pezzi che costituiscono l'opera di un autore, quanto il rapporto tra il suo stile e la tradizione a cui l'autore si avvicina o si contrappone), piccolissima (le sfumature quasi impercettibili, ma decisive, della modulazione del suono).
Il compositore ha una propria relazione mentale, emotiva, concettuale, anche fisica con queste forme, e l'ascoltatore non percepisce queste forme solo "in sé stesse", ma anche "in quanto volute da qualcuno". La domanda "cosa vuole esprimere?", infatti, è una delle più spontanee, e spesso inconsce, che nascono in ogni forma di fruizione artistica. La delicatezza o la violenza, la dolcezza o l'asprezza di una costruzione musicale valgono sia per gli effetti che suscitano nell'ascoltatore, sia per la comunione spirituale e ideale che possono (non è mai scontato che ciò avvenga) creare tra il compositore e il suo pubblico. Il compositore, a sua volta, quando compone si chiede, consciamente o meno, come l'ascoltatore recepirà le forme sonore che va distillando.
E oplà, il contagio esperienziale è servito, su tutti i piani.
Quello delle dinamiche che governano i fenomeni di contagio esperienziale è un terreno molto delicato. Non si può pretendere di avere il controllo totale del gioco incrociato di reazioni psicofisiche che avviene nel quadrato che abbiamo delineato e che riassumiamo qui sotto:
- suono – che accade;
- compositore – che organizza il suono;
- interprete – che mette in atto il suono;
- ascoltatore – che riceve il suono.
In fondo un controllo totale sarebbe la negazione della stessa forza misteriosa che rende così interessanti queste dinamiche.
Per usare una metafora a me particolarmente cara: volere il controllo totale di tutto ciò sarebbe come volere il controllo totale dell'emozione di un incontro amoroso. Se ci fosse il controllo totale non sarebbe più un'esperienza emotiva, nel senso profondo del termine.
Non vogliamo il controllo totale. Ma neanche la totale rinuncia al controllo. Possiamo, infatti, imparare a fare l'amore (lo yoga tantrico è solo uno tra gli infiniti esempi – tradizionali o individuali – possibili). Analogamente possiamo imparare a creare musica.
E, così come possiamo praticare ed esplorare i segreti del sesso senza necessariamente – per dirne una – fare figli, possiamo praticare ed esplorare i segreti della musica senza necessariamente – per dirne due – far cantare o danzare.
Sappiamo che il Figlio del sesso, prezioso quanto la prole generata, rimane dentro di noi: è la felicità e la conoscenza di sé e dell'altro a cui il Sesso può condurre (condizioni indispensabili, sia detto per inciso, per creare – se proprio si vuole crearli – figli realmente amati, da noi e dal mondo).
Possiamo, similmente, affermare che il Canto e la Danza della musica, preziosi quanto quelli letterali, rimangono dentro di noi: sono l'eccitazione, lo stordimento, la commozione, la pienezza a cui la Musica può condurre (condizioni indispensabili, sia detto per inciso, per creare – se proprio si vuole crearli – melodie e ritmi realmente amati, da noi e dal mondo).
Sull'onda del finale di questa lunga disquisizione, sottolineo un fatto su cui finora ho sorvolato: io mi occupo anche di musica non di ricerca – non in senso stretto, almeno.
Amo profondamente e visceralmente la melodia, l'armonia, il ritmo... Li ho studiati, li studio tuttora, li pratico e li condivido col mio pubblico.
Il centro del mio cuore è inchiodato alla ricerca di cui ho parlato sopra. Ma un cuore non vive solo del proprio chiodo. Quella si chiama crocifissione.
E con questo concludo.
«Che tipo di musica fai?» Era una semplice domanda; spero di non avervi sfiniti con la risposta. In fondo queste sono considerazioni nelle quali è custodito il senso della mia vita – non necessariamente quello della vostra!
Copyright © 2009 Dario Buccino
Photo © Saverio Turano