Palermo: fondamenta per un ponte sul futuro
Di Giovanni Damiani
La vita musicale a Palermo degli ultimi dieci anni ci offre occasioni di riflessioni generali su modi possibili, immaginabili, progettabili del fare musica nuova. Non intendo qui riferirmi al successo internazionale di un Salvatore Sciarrino, cui le istituzioni locali cominciano a dedicare spazi importanti; o viceversa al peso che hanno i neoromantici palermitani nella scena locale e non. Una parte significativa di queste occasioni di fare e esperire musica cui mi riferisco è quella, di carattere del tutto diverso, proposta e compiuta da Curva minore, associazione per la musica contemporanea, per il forte impulso di Lelio Giannetto, di essa presidente e direttore artistico.[1]
In un momento per la musica in Italia di crisi di investimenti sulla cultura e talvolta anche di idee (questa seconda non giustifica la brutalità della prima crisi), in un periodo che ha visto a Palermo chiudere tante istituzioni (la Fondazione Festival sul Novecento, il Cims), decrescere enti grandi e piccoli, e quasi annichilire l’attività di formazioni anche di rilievo quali lo Zephir ensemble, ebbene, pur condividendo tali difficoltà, l’associazione di Giannetto ha tenuto alto e in crescita il livello artistico e la partecipazione di un pubblico folto e variegato. Duttile interprete al suo contrabbasso, dal vasto repertorio, trova il suo campo d’elezione naturale nell’improvvisazione libera post-jazzistica più antidecorativa, materica e virulenta che sia dato ascoltare. Un primo ente fondato su sua sollecitazione, dal nome cageano 4’33”, nasceva dal desiderio di fondere in un’unica musica la partecipazione di compositori e interpreti sia tradizionali -di musica scritta- sia improvvisatori, con musicisti anche notevoli e musicalmente talvolta analfabeti, o, secondo la colorita espressione di Paolo Emilio Carapezza, ‘anadoremici’. Tale desiderio risultò poco realizzabile nell’humus locale, e ciò sospinse Giannetto a fondare la ben più attiva Curva minore, appunto, con una stagione di pura improvvisazione e una seconda di musica scritta; ma entrambe le polarità linguistiche spesso sottilmente intersecantesi, e soprattutto accomunate dal rigore linguistico, dallo svisceramento delle possibilità comunicative sonore e parasonore, dalla presenza magnetica di interpreti che con i suoni sospingono sensi e intelligenze verso paesaggi sonori in prospettive inedite. Si badi bene, la relazione fra scritto e improvvisato è di parentela, non di confusione, ché nessun orecchio accorto ha mai realmente scambiato un buon pezzo seriale con uno aleatorio, o una fioritura di basso continuo con la linea di scrittura e di pensiero di un compositore barocco.
Mi occuperò qui soltanto in tale ambiente ibrido delle realizzazioni di musiche di tradizione scritta, o che fanno comunque riferimento a un unico compositore, attivo anche in prassi di tradizione orale. In un momento esplosivo per la definizione tradizionale di composizione, di musicologia, di creatività, e invece di implosione per il sostegno pubblico a tali slanci conoscitivi, ben venga una sollecitazione da parte di ambienti altri, sostenuti in questo caso non da un egualitarismo imposto dall’alto (come si sta profilando in tutti i livelli produttivi e didattici), né da un interesse rampante (le stagioni di musica improvvisata trovano comunque il loro pubblico e la loro legittimazione, non necessitano dell’aura della musica ‘alta’ e organizzata). La presenza del pubblico è coadiuvata nel caso presente da una buona visibilità sulla stampa locale, ma soprattutto da un capillare lavoro di ‘disturbo’ dei licei nella normale attività scolastica, lavoro sostenuto da dirigenti illuminati e concretizzato con seminari pomeridiani e presentazioni dei singoli concerti da parte di musicologi quali Guido Barbieri, Paolo Emilio Carapezza, Michele Mannucci. La frequenza di un buon numero di studenti e insegnanti liceali ed universitari è comunque estranea al meccanismo mercantile dei crediti scolastici; i giovani costituiscono spesso non solo pubblico, ma partecipanti attivi all’organizzazione e ai workshop della vita associativa. La strategia prevalente è fare leva su essi con forze artistiche coinvolgenti, con solisti tanto di provenienza internazionale, quanto locali, che vengono sempre e comunque fortemente legati al territorio: dal sempre fondamentale Pierrot lunaire, affidato a Cristina Zavalloni con appunto i palermitani Zephir Ensemble e Francesco La Licata, a più numerosi eventi conemporanei con il Conservatorio di Palermo (monografia su e con Maurizio Pisati), ai numerosi progetti con il chitarrista napoletano Marco Cappelli e formazioni locali. Come vedremo compositori e performer realizzano laboratori aperti anche a competenze musicali minime, ma di notevole impegno e serietà.
Tra le giornate più ambiziose e innovative non si può non menzionare l’indimenticabile Contemporary music party, a cura del pianista e direttore Marino Formenti, la cui inquietudine nella creazione di programmi compositi ormai celebri si è naturalmente inserita nei percorsi e trascorsi palermitani per progettare una lunga e intensa giornata con presenza cruciale di musica contemporanea all’interno di un vero e proprio party musicale, di cui è stato ideatore, direttore e pianista sia solista che d’ensemble.[2] Inquieta curiosità in questo caso per variabili in genere lasciate sullo sfondo, come la scelta del cibo o del vino, o l’uso insolito di suonare e ascoltare Feldman o Nono in un ambiente in genere rilassato.
Forse il compositore che incarna meglio lo spirito e le inquietudini di tale programmazione, e cui è stato dato grande risalto, è Cornelius Cardew. Del compositore inglese, prematuramente scomparso nel 1981, è stato eseguito dapprima Treatise, ponderosa opera di grafismo musicale, da parte di un ensemble di sette solisti di sei nazioni europee, in collaborazione con il Teatro Massimo; quindi la produzione pianistica, dal periodo seriale a quello ‘neorealista’, è stata interpretata e da Daan Vandevalle e John Tilbury (suo interprete storico), contornata da compositori a lui vicini quali Feldman, Rzewski, Curran, Mumma; Tilbury, dopo un’esecuzione magica delle feldmaniane Triadic memories ha infine supervisionato il lavoro a lungo preparato in loco con un centinaio di performer locali, professionisti e non, per la realizzazione de The great learning, immane giornata di drammaturgia musicale di ispirazione confuciana, di cui sono stati realizzati i paragrafi quinto (nel 2007) e settimo (nel 2008). Si ricorda la passione profusa da Cardew in favore della serietà e dell’impegno etico, oltre che politico, dell’interprete come incarnazione globale del rinnovamento sociale, passione che travalica i mezzi della scrittura e dei modi dell’avanguardia per esplorare negli anni Sessanta territori musicali ancora vergini dell’improvvisazione d’ensemble (AMM) o orchestrale (Scratch orchestra). In Verso un’etica dell’improvvisazione Cardew illustra con forza la sua idea di composizione libera da scrittura, affidata al puro istante, al qui e ora, unica nel tempo e nello spazio, e quindi non registrabile, né riproducibile fuori dal suo contesto originale;[3] fa quindi parte del virtuoso 'integro' l’identificazione col suono e l’accettazione della morte. La sensibilità speciale che Cardew attribuisce nei suoi scritti a chi improvvisa, è anche sensibilità per l’uditorio, flessibilità riguardo il destinatario o il luogo. Coerenti con tale sensibilità le numerose investigazioni di Giannetto (coadiuvate da Stefano Zorzanello) verso il paesaggio sonoro, di cui ha curato nel 2005 uno dei primi convegni musicologici internazionali, ‘Ascolta Palermo/Palermo Ascolta’, grazie al coinvolgimento di Giovanni Giuriati allora docente presso l’Università di Palermo, col naturale corollario di escursioni organizzate in paesaggi urbani e rurali ed esecuzioni di opere di environmental music di Christian Wolf e Murray Schafer.
L’accostare all’ascolto di Cardew quello di Stockhausen (con cui Cardew collaborò strettamente come assistente per tre anni, ma che poi additò come esemplare imperialismo musicale [4]) fa parte dello spirito non settario, della volontà interlocutoria di tali programmazioni. A Stockhausen è stato dedicato tra l'altro, in stretta collaborazione con gran parte delle associazioni di Palermo, un piccolo ciclo soprattutto sulle composizioni degli anni Sessanta aleatorie e 'intuitive', ossia quelle in cui rischia maggiormente sui paradigmi del controllo compositivo fissato su carta o nastro magnetico.
A Palermo non manca in genere il pubblico per la musica contemporanea, esiste un pubblico informato e numeroso non meno che in città maggiori, eppure manca un festival di musica contemporanea da più di quarant’anni, da quello che è stato finora l’unico, e glorioso festival di musica contemporanea, le Settimane Nuova Musica, irripetibile vetrina e laboratorio delle musiche in gioco del periodo. Le piccole stagioni qui descritte, anche quando di diversa estrazione, rappresentano l’unica occasione di immersione in un intero programma di nuovi suoni, senza i concilianti abbracci della routine museale.[5] Ricordo ancora casi di musiche tradizionalmente notate, commissionate altrove e declinate per l’impegno dichiarato eccessivo, che sono state più volte qui ascoltate grazie alla disinteressata dedizione di interpreti locali, lontani dall’idea rassicurante di repertorio, di investimenti mirati e misurati; non solo ‘prime’ dunque, ma anche riproposizioni di esperienze riuscite.
Le situazioni della vita sono sempre più paradossali di quelle di fantasia, e tale è il caso di tale lavoro gigantesco e capillare, realizzato nel massimo decoro col minimo dei mezzi finanziari; e paradossale soprattutto che questi esigui mezzi finanziari siano stati finora comunque concessi (grazie alla tenace pressione di Giannetto) dal governo siciliano di centrodestra per un’operazione quanto mai differente dall’ideologia di tale governo. Ancora una volta, il dialogo possibile tra idee dalla distanza apparentemente incolmabile.
Significativo anche a questo proposito l’interesse ricorrente per Giacinto Scelsi[6], liberatore dei suoni dai dominii della mente, suoni che più che composti sono trascritti da uno stato di grazia nel medium cartaceo, tanto importante, quanto illusorio per i non ‘illuminati’.
Quanto detto finora non toglie spazio e valore dato alle musiche iperdeterminate, o a quelle che, consistendo di minime sfumature anziché di slanci verso l’utopia, possono solo esistere in ambienti al massimo della competenza interpretativa. Non è mancato spazio per esempio a una musica ‘aristocratica’ quale quella di Francesco Pennisi, con un concerto a lui dedicato; o a quella apparentemente sovraccarica di Federico Incardona, la cui scrittura in realtà tende a far esplodere l’oggetto-nota e il suono verso tensioni inedite. La sua scrittura, spesso utopisticamente ardua ma spesso disposta alla semplicità per coinvolgere giovani promesse, incarna la volontà di creare ponti tra nobili ricercatezze elevatissime e leva sociale rivolta agli ultimi, ponti che scavalcassero totalmente il fiume di fango della medietà insipiente. A tale figura di grande influenza nella sua amata Palermo è stato dedicato il primo concerto monografico appunto nella sua città.[7]
Esemplare, oltre che per l’efficacia delle realizzazioni, anche del presente discorso su possibili sinergie tra scrittura e tradizioni esecutive orali, è la frequenza in tali contesti a Palermo di Dario Buccino, di Milano, come compositore, solista e coordinatore di ensemble di propria musica. Demone solare, autore di partiture ricche di dettagli inediti, tutti concentrati sull’atto fisico dell’esecutore come veicolo di condizioni ipersensibilizzate, quasi nevrotiche, del corpo e della mente; raggiunge ciò appunto da un lato con partiture organizzate con appositi parametri fisici, dall’altro in stretta collaborazione con l’esecutore con un training diretto, lungo, impegnativo, ma anche entusiasmante quando trova i canali della giusta sintonia. Percorso impervio o impraticabile per chi si è concentrato sempre sul suono; riscoperta di una fisicità dimenticata, per altri, obbliga a disimparare quanto appreso in anni di specializzazione, come rivelava Heinz-Klaus Metzger, da anni amico ed estimatore di Buccino, in una conferenza su Buccino tenuta a Palermo nel 1997. Significativamente egli trova quasi più adatto al suo mondo espressivo e conoscitivo il lavoro che fa su di sé l’attore di teatro. In particolare Jerzy Grotowski. Lavoro in cui il testo è solo la minima parte, anche eliminabile, di un’autoscoperta intima. Ancora un fertile ponte viene gettato verso altre terre, coinvolgendo la radice del lavoro sul suono e sul pensiero: niente contaminazione o semplice sovrapposizione additiva, come, poniamo, nei melologhi o nelle forme più tradizionali e ormai specializzate di teatro musicale. Ma cambiamo metafora, e anziché ponte possiamo chiamare una scala gettata nel buio, come Camillo Togni definiva la serie schoenberghiana.[8]
Ma vero, scritta da Buccino dal 1997 al 2006, presentata da Curva Minore in più repliche data l’esiguità del pubblico ammesso, mostra proprio tale involontario aggiornamento dell’opera d’arte totale di Bayreuth: si tratta di un’esperienza che vive in un preciso ambiente, una piccola stanza nel buio quasi totale, dove un massimo di dieci ascoltatori su comodi cuscini assistono da vicino agli atti di quattro performer con voci, clarinetto, entrambi spinti al parossismo della tensione introflessa, e grandi lamiere, queste ultime lo strumento più congeniale e virtuosisticamente adattato alle esigenze di questa musica dalle dinamiche spesso spinte ai due estremi opposti.
Buccino chiama il suo sistema di notazione per parametri fisici sistema HN, cioè hic et nunc, (e così chiama poi uno dei suoi cicli compositivi); si propone di portare alla coscienza di chi esegue e di chi ascolta il qui e ora dei sensi presenti, con mezzi misti scritti e orali, ma comunque focalizzati sul corpo dell’interprete come veicolo di inaudite emozioni.[9]
Numerosi altri compositori quasi ignoti hanno potuto curare in queste stagioni serate monografiche; poche parole per tentare di surrogare ascolti rari e in realtà insostituibili. Il catanese Angelo Sturiale, apparentemente svagato quanto poetico stravolgitore di parametri consolidati; o il palermitano Marco Crescimanno, compositore di indimenticabili musiche scabre, graffianti, sempre fortemente sentite e commoventi. Ancora, Dario Lo Cicero, musicista e studioso dal raro pregio di reinterpretazioni di arditi scorci storici sotto il segno delle minoranze misconosciute, della coscienza di quanto sia ancora lunga la strada alla tolleranza e all’ascolto. Serate spassose le sue, e istruttive, anche nello scoprire o costruire strumenti musicali vecchi o inediti. E ciò si potrebbe collegare a certo Kagel presente in queste serate; ma vorrei ancora citare tra musicisti per noi importanti l'organista Vito Gaiezza, per l'originalità delle incursioni in mondi misconosciuti, musicali e non, o infine la cantante folk Matilde Politi, che riporta alla luce canti trascritti da Alberto Favara a inizio Novecento alla luce di sue ricerche sulle tradizioni orali siciliane o africane.
Speciale la dignità di questo agire per la musica, per un fare partecipativo che non aggrega media diversi sotto i feticci della tecnica o della multimedialità globalizzata, tanto meno mira a un’opera d’arte totale, in un estetismo che non lascia tracce del processo produttivo, bensì nella scommessa temeraria del musicista interessato a compiere e non nascondere il lavoro ‘sporco’, da autore e produttore (interprete e promotore, didatta e organizzatore, portavoce presso i rappresentanti politici, con tutte le deleghe indispensabili e mirate alla grafica, alla tecnica del suono, ecc.), sfida le convenzioni produttive di divisione del lavoro;[10] crea spazi vivibili tra professionisti e appassionati dilettanti non imborghesiti nella percezione, nella presunzione di sapere povera di esperienza. Tali piccoli spazi fertili giustificano la nostra permanenza attiva oggi in una terra altrimenti desolante.
Giovanni Damiani
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[1] Di imminente pubblicazione un ampio volume su quest’attività più che decennale: Curva minore. Musica nuova in Sicilia 1997-2007, a cura di Gaetano Pennino, edito da Regione Siciliana, Casa museo Antonino Uccello; il volume, corredato di tre Cd antologici, raccoglie contributi di musicologi, docenti, musicisti, rappresentanti politici che hanno contribuito alle realizzazioni di questi anni.
[2] La stessa esperienza ha quindi inaugurato la Biennale di Venezia dello stesso anno (2006), con l’ensemble Klangforum Wien, di cui Formenti fa parte.
[3] Cornelius Cardew, Towards an Ethic of Improvisation, da "Treatise Handbook," 1971, Edition Peters. Si confronti anche il così diverso Franco Evangelisti, Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro, Semar, Roma 1991, in particolare il cap. 'Dalla forma momentanea al gruppo d'improvvisazione'.
[4] Cornelius Cardew, Stockhausen Serves Imperialism and Other Articles, Latimer New Dimensions, London 1974.
[5] Cito due tentativi assai diversi di riproporre rassegne contemporanee, ambedue finiti nel nulla subito dopo il concerto inaugurale: quello di vera riproposta delle Settimane, affidate a Federico Incardona, referente politico Gianni Puglisi, e quello interamente affidato a Karlheinz Stockhausen, iniziativa dell’allora sindaco Leoluca Orlando.
[6] Di Scelsi si sono eseguiti, in collaborazione con l’Associazione per la musica antica Antonio Il Verso, i Canti del capricorno, e altri concerti semi-monografici in compresenza di prime assolute correlate a tale musica.
[7] Precedentemente due concerti monografici avevano tenuto luogo a Gibellina, Fondazione Orestiadi. Su Incardona, cfr. il volume monografico a lui dedicato dal Cims, Federico Incardona, Palermo 1999; inoltre, su Musica/Realtà l’articolo di P.E.Carapezza, Sviluppi della dodecafonia nel meridione d’Italia, n.53, Luglio 1997, o l’intervento di Giovanni Damiani, Federico Incardona, una presenza, n.80, Luglio 2006.
[8] Camillo Togni, Un paio di linee, laQuadra, Brescia 1994.
[9] “La possibilità di accendere nell'ascoltatore (e nell'esecutore stesso) una palpabile sensazione di esserci - qui e ora - e una sottile e profonda risonanza affettiva. (…)
La carica simbolica di un ordigno estetico è la sua capacità di far esplodere significato. Catene di esplosioni di significato. Tanto più cruciali quanto più incontrollabili, senza fondo (come due specchi posti uno di fronte all'altro), irrisolvibili da un atto spiegatorio.
In ultima analisi, quindi: la messa a punto parametrica e, poi, la riuscita performativa di ciascun atto esecutivo sono importanti. Ma altrettanto importante è l'organizzazione compositiva dell'intero ordigno, la distribuzione spaziale e temporale della carica esplosiva.
Questo è il mio attentato ipnotico a favore dell'ascoltatore.”
Dario Buccino, Sistema HN (2006)
[10] Si veda il saggio di Walter Benjamin L’autore come produttore, in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi, Torino 1973.
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